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Il nostro Lorenzo Stiatti è il
vincitore del Premio “Tagete” 2021
Leggi il racconto inedito

Il nostro redattore Lorenzo Stiatti è il vincitore del XIII Premio Letterario “Tagete” 2021!

Arrivato alla sua ventitreesima edizione, il Premio Letterario “Tagete”, istituito dall’Associazione Scrittori Aretini “Tagete” e coadiuvato da ospiti di eccellenza, presenta opere edite ed inedite di poesia e narrativa provenienti da tutta la provincia. Nel tempo ha acquisito una forte rilevanza anche in ambito nazionale, portando alla creazione del Premio Nazionale Etruria, compreso nell’edizione di quest’anno, che vede la partecipazione di autori da tutta Italia.

Con gradissimo piacere pubblichiamo il racconto vincitore e siamo super orgogliosi che l’autore sia uno dei redattori di WEARE!

“Chímaira” di Lorenzo Stiatti
Il cacciatore coprì attentamente la profonda buca irta di pali accuminati con un telo sottile, su cui poi riversò uno strato di foglie secche per celarlo alla vista. Sfregò le mani per pulire il grosso del terriccio, spostandosi attorno alla trappola ed osservandola da varie angolazioni per controllarne l’efficacia. Gettò infine un’occhiata alla boscaglia, cercando il suo assistente.
«Ragazzo? Hai finito con quei pali?»
Per qualche secondo non vi fu risposta, ma poi una voce ansimante si palesò da un punto non troppo distante, nascosto dai rovi.
«Ho fatto come mi hai detto, maestro.»
«Appena hai finito di piazzare le punte sul fondo, ricordati di coprirla bene. Dobbiamo evitare che possano avere dei dubbi. Tutto deve risultare realistico, come ti ho insegnato.»
Di nuovo la risposta arrivò in ritardo, sempre distorta dalla fatica.
«Ho capito!»
«E nel caso ci imbattessimo in un vero leone?»
Stavolta l’assistente fu più rapido.
«Tu lo tieni con la lancia e con il fuoco nella zona delle trappole, mentre io gli tiro con l’arco da sopra a quell’albero laggiù.»
«Bravo ragazzo.»
Il cacciatore era un vecchio guerriero che, stanco di rischiare la vita nelle battaglie, si era dato alla caccia di bestie leggendarie. Una capra ed il suo pastore erano spariti in una palude? Qualcuno aveva visto delle gobbe uscire dall’acqua palustre proprio dove i malcapitati erano scomparsi? Sicuramente vi era un’hydra in agguato e con delle ossa abbastanza grandi, della carne di bottega, delle armi ed una buona dose di dettagli assurdi, il mostro ucciso dai due prodi prendeva vita. In pochi casi avevano davvero incontrato un animale, ma abbattere un lupo od un orso non era un problema visto il compenso altissimo che veniva pagato loro.
Ai due era giunta voce, alcune settimane prima, di una misteriosa fiera che imperversava nel territorio di Arretium, la quale si diceva avesse devastato intere greggi e, secondo alcuni, avesse persino divorato pastori e viandanti non lontano dalla strada per Curtun.

Le massime cariche della città, tra cui il lucumóne, le famiglie aristocratiche ed i mercanti, avevano organizzato battute di caccia impiegando persino soldati, ma senza nessun risultato. Era stato così messa in palio una somma incredibile per chiunque avesse abbattuto o catturato la bestia.
Il cacciatore si era subito precipitato in città come una falena attratta dal fuoco, fregiandosi delle sue passate “imprese” e convincendo le alte cariche di avere a che fare con una chímaira, per via della criniera e dei sibili narrati da certi testimoni. Disperati più per il danno alla loro immagine, che per le vittime, le autorità incaricarono il vecchio soldato di stanare quell’essere.
Per giorni avevano preparato tutto nei minimi dettagli. Il punto scelto per il finto agguato era una sezione di territorio montano frammentato da sporadici crepacci, di cui alcuni così oscuri e profondi da ricordare l’ingresso per il regno dei morti, situato non lontano dalla strada in cui erano avvenuti i presunti attacchi. Il luogo perfetto per una battaglia degna di una leggenda.
Lo scheletro della presunta chímaira era stato assemblato utilizzando ossa di leone, di lupo, di capra, di serpente ed una massiccia testa d’orso, il tutto poi ricoperto da carni, viscere e pelli, anche se era solo una precauzione nel caso qualche curioso li avesse trovati. Persino lo scenario circostante era stato adattato in alcuni punti strategici a teatro di scontro, con alberi spezzati, orme, terreno smosso, trappole e per quell’ultima notte di veglia, tizzoni ardenti creati dall’alito di fuoco del mostro.
Il sole tramontava rapido, regalando all’aere un colore giallo-arancio che ben si sposava con il verde del bosco, mente il cacciatore ed il suo attendente mangiavano del pane e del formaggio di capra, accompagnato da acqua e vino, in silenzio: succedeva sempre così nell’ultimo giorno di “caccia”, forse un po’ per l’ansia di essere scoperti.
Un rumore flebile portato dal vento, li costrinse a fermarsi e ad imbracciare le armi: qualcosa si era mosso sul crinale poco oltre la finta carcassa.
Il cacciatore accese una torcia e fece cenno al ragazzo di muoversi verso il grande albero su cui avevano montato una scala, mentre lui si avvicinò in silenzio con il giavellotto in mano alla finta bestia. Notò sin da subito che molta carne e viscere mancavano all’appello, trasportate in una certa direzione in mezzo alla boscaglia più fitta; la scia di sangue a terra non mentiva e nemmeno le grosse impronte leonine.
“Oggi è andata male.” – Pensò sospirando – “Dovrò impegnarmi.”

L’uomo alzò la torcia per dare il segnale all’allievo di tenersi pronto con l’arco e seguì lentamente le tracce, nel silenzio premonitore del bosco. Nel buio oltre il confine di luce creato dal fuoco, un rumore fastidioso, a volte viscido, a volte articolare, si faceva sempre più forte. Con lo sguardo fisso in avanti, inciampò su qualcosa rischiando di cadere, ed illuminando il terreno, vide le loro sacche ed i viveri sparsi. Era di nuovo al punto di partenza, ma si rese ben presto conto di non essere da solo: un’imponente massa di pelo rosso scuro dalla vaga forma felina, muoveva ritmicamente i muscoli dandogli le spalle; la sua coda lunghissima e fine, sibilava nell’aria come una serpe infastidita, fendendo le foglie e scontrandosi a volte con due lunghe protuberanze ossee che fuoriuscivano da una gobba sulla schiena irta di setole. Stregato, il cacciatore fece qualche passo per vedere meglio e notò con orrore il motivo di quegli strani movimenti: la bestia si stava nutrendo dall’addome squarciato del suo assistente, il quale, ancora in vita, boccheggiava ad occhi stretti tra rantoli quasi impercettibili. Il vecchio soldato rimase paralizzato a quella vista e persino nel momento in cui la grossa testa coronata da una criniera oscura si rivelò, non riuscì a muovere un muscolo per lo spavento: il muso sensibilmente schiacciato, ospitava una bocca il cui taglio arrivava quasi alle orecchie seminascoste sui lati; dalle lunghe zanne, simili a spilli, colavano sangue e brandelli di carne. Ciò che però gelò il sangue all’uomo, furono i due occhi dalle iridi rosse, spalancati e totalmente simili a quelli di un uomo.

La bestia scoprì tutta la sua dentatura in un sorriso sovrannaturale e biascicò, con voce ricca di bassi che facevano vibrare il petto, qualcosa in una lingua incomprensibile.
Il primo istinto del cacciatore, scosso dall’adrenalina, fu quello di lanciare il giavellotto dritto in faccia al mostro, raccogliendo subito dopo l’arco con faretra dell’apprendista, che si trovava ai suoi piedi. La chímaira ululò per il dolore, ma l’uomo non vide dove l’aveva colpita, poiché si era già lanciato nella direzione del faggio su cui si sarebbe dovuto appostare il ragazzo. Alle sue spalle, sentì sempre più vicina la voce della belva ed il suo incedere rapido sulle quattro zampe; per contro, lui era rallentato dagli ostacoli naturali, non potendo vedere bene oltre il raggio di luce baluginante della torcia che stringeva in una mano. Per fortuna, notò di aver superato un punto nel terreno colpito dalla disattenzione del suo allievo e scartò improvvisamente di lato, costringendo a sua volta la fiera ad imitarlo; la bestia finì dritta dentro una delle trappole scavate nel terreno, ma il cacciatore sapeva che non sarebbe bastata.
Il vecchio soldato arrivò in pochi balzi all’albero prestabilito, si mise arco e faretra a tracolla, abbandonando a terra la torcia, e salì la scala di legno e corde con la velocità di uno scoiattolo. Seduto tra i rami più alti, incoccò la freccia e puntò il buio, attendendo l’avversario.
Lunghi secondi passarono, mentre la corda dell’arco rimaneva tesa ed il sudore iniziava a bruciargli gli occhi.
La bestia arrivò camminando, puntandolo come se avesse sempre saputo la sua posizione. Dalla sua bocca usciva un pezzo del giavellotto che recise con un morso: era incolume. Iniziò a girare attorno al tronco della pianta, borbottando oscenamente tra sé e sé e fu in quel momento che l’uomo scoccò la freccia sulla testa del mostro, ma essa andò in frantumi come se avesse impattato sulla roccia. La chímaira, d’improvviso, piego la testa di lato come le lucertole, osservando la torcia ancora accesa a terra. Il suo corpo fu preso da spasmi ed infine vomitò un liquido scuro sulla base dell’albero; con un gesto della zampa, spostò la torcia sopra il liquido, che immediatamente prese fuoco come olio.
Ripresosi dalla sorpresa per quell’azione così intelligente, il cacciatore cercò un’altra freccia dalla faretra, ma toccò il nulla. Le aveva perdute durante la fuga. Pregò Tinia.
Non ci volle molto perché le fiamme avessero regione sul legno. La pianta cadde nel vuoto e l’uomo vi si aggrappò con tutte le sue forze.

Il contraccolpo fu secco e istantaneo, troppo rapido per una caduta libera e nemmeno troppo doloroso. Aprendo gli occhi, il vecchio soldato si ritrovò sopra ad uno degli abissi neri di quei luoghi: con sua somma sorpresa, l’albero era caduto appoggiandosi ad un versante di uno dei profondi crepacci, creando una sorta di ponte.
Si tirò su con grande sforzo, osservando la parte completamente in fiamme ed udì nuovamente la potente voce, tra le cui parole poté riconoscere Rasenna, il suo popolo, il popolo dell’Etruria. Nel fuoco vide l’ombra di un grosso rapace che si estendeva su tutte le loro terre e quell’immagine penetrò nei suoi occhi come un ago affilato. Quella bestia era un araldo di sventura.
Il tronco dell’albero cedette, trascinando roccia e fiamme nell’abisso. L’incubo tra le fiamme spiccò un balzo nella sua direzione per finirlo, ma l’uomo aveva i riflessi pronti e saltò a sua volta, disperatamente, verso il bordo alle sue spalle, battendo con forza il petto e la testa sul terreno: mentre perdeva i sensi, pensò di essere felice di poter riposare, forse per sempre.
L’alba lo risvegliò con il suo calore e con un forte dolore alle tempie degna della peggiore sbornia di tutta la sua vita: sperò che fosse stato tutto un incubo. Sforzandosi di mettersi in piedi, si rese presto conto che attorno a lui tutto era devastato o bruciato; fu però il sangue che impregnava il manto erboso in lontananza, a riportarlo alla cruda realtà con la forza di uno schiaffo. Della bestia, nessuna traccia.

Il cacciatore divenne eroe, ma non parlò mai di quella visione funesta, poiché era pur sempre un bugiardo nell’animo.
Della sua impresa, una chimera di bronzo in Arretium resta.

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