Alessandro Gori, aka Lo Sgargabonzi, scrittore e performer, nasce e vive in Val di Chiana. Una laurea in Psicologia a Firenze (con tesi sulla internet addiction), dal 2005 cura il Blog “Lo Sgargabonzi”, poi divenuto pagina Facebook. Dal 2013 comincia la sua produzione letteraria, con “Le Avventure di Gunther Brodolini”, “Bolbo”, “Il Problema Purtroppo del Precariato”, “Jocelyn Uccide Ancora”, e “Confessioni di una Coppia Scambista al Figlio Morente”, oltre a diversi tour teatrali con “Lo Sgargabonzi Live!” e altri spettacoli, collaborazioni, rubriche (come quelle su Linus e Rolling Stone) e graphic novels. Quando ci siamo incontrati abbiamo parlato di giornalisti poco informati, moralisti molto affamati, capolavori musicali e cinematografici, bevande dal retrogusto anni ’90 e icone del porno prematuramente scomparse. In Alessandro convivono concretezza e gentile umiltà: un contrasto inaspettatamente eclettico, se si pensa al suo stile letterario, connotato da un humor schietto, a tratti spietato; hardcore, ma al contempo sottile. La prima cosa che gli chiedo è come è nata la sua carriera di scrittore e performer.
«Il mio lavoro nasce in modo abbastanza casuale, ben poco voluto da parte mia. Faccio un passo indietro: dopo il Classico scelsi di fare Psicologia perché era la branca più aderente ai miei interessi. Ma neanche troppo: facevo fatica a trovare una Facoltà che mi entusiasmasse. Di base ho fatto l’Università solo per prolungare l’adolescenza, ma sapevo che non avrei mai fatto lo Psicologo. Proprio mentre stavo per iniziare la Tesi, nel 2005, pensai di aprire il blog “Lo Sgargabonzi!”, dove scrivevo racconti e monologhi. Non mi piaceva proporre cose “da blog”, lo intendevo più come una sorta di blocco note per quella che sarebbe stata poi una pubblicazione cartacea. Nel 2013 uscì il mio primo libro per un editore aretino, Fuorionda. Facevo presentazioni in giro, ad Arezzo e dintorni. Molta gente veniva a vederle anche da fuori dalla Toscana. Mi accorsi che mi conoscevano per via del blog, che aveva un pubblico ristretto ma molto fedele, una sorta di “società carbonara”. Poi Mattia Coletti, patron del Lago Film Fest di Revine Lago, nel Luglio 2013 mi chiamò, proponendomi un breve fuori programma durante la serata finale, dove veniva premiato il miglior cortometraggio. Finii per leggere “20 Curiosità sul Rapimento Moro” davanti a un pubblico di cinquecento persone che era lì per tutt’altro. Non fui particolarmente emozionato, non lo sono mai stato su un palco. Mi chiamarono poi da un locale di Genova, il Checkmate, chiedendomi di fare uno “Sgargabonzi Live”: un’interpretazione dei miei pezzi sul palco, davanti a un semplice leggio. Non avrei mai sognato di fare questo, né mi fa impazzire tutt’ora. Avrei voluto invece diventare musicista, ma sapevo di non avere le capacità per reggere il paragone con gli altri. Per dire, non potrei mai scrivere una canzone pop sapendo che esiste “Don’t Look Back in Anger” degli Oasis. Non sono un lettore, quindi vado più sicuro nella scrittura, perché ho meno termini di riferimento. Dopo quella serata ne seguirono altre, fino a che è diventato il mio lavoro. Non mi fa impazzire ma neanche mi dispiace. Io però preferisco scrivere libri. Non perché sia un amante della scrittura – anzi, scrivere non mi piace affatto, lo trovo faticoso e noioso – ma è il risultato finale a motivarmi e gratificarmi: scrivere un libro in purezza, senza farmi problemi sul piacere o meno – perché a me interessa piacere solo a me stesso – avendo il controllo completo su testo, paratesto, sinossi, copertina, frase in quarta di copertina. Sono piuttosto perfezionista in questo e non amo le interferenze. Non mi prendo sul serio nella vita, ma in quello che faccio, dannatamente.»
Claudio Giunta, insegnante e saggista, nel 2016 scrive sull’Internazionale un’approfondita disamina della tua produzione letteraria, definendoti “il migliore scrittore comico italiano”. Tu ti rivedi nella definizione di “comico”, magari “satirico”, o in qualcosa di ancora diverso?
«Visto che citi la satira – mi dispiace dirlo perché ho anche vinto il Premio della Satira l’anno scorso – io al massimo ci arrivo involontariamente. Non mi ritengo un autore satirico. Pochi temi sensibili mi appassionano; forse uno è il giustizialismo. A Firenze ho presentato il monologo “L’Ultima Notte di Pietro Pacciani”. Ho sempre avuto pena per Pacciani, pur essendo lui un orco che aveva abusato di moglie e figlie, e che comunque aveva pagato col carcere i suoi crimini. Il fatto è che in quel processo di primo grado, in cui veniva accusato di essere il Mostro di Firenze, l’avevano reso così repellente e mostruoso, che al pubblico da casa andava bene che lui scontasse le pene di sedici omicidi, pur sapendo che non li aveva commessi. Era il trionfo teorico della giustizia. Tra un pedofilo e qualcuno dalla parte del giusto, pronto al linciaggio, mi schiererò tutta la vita accanto al primo. In questo monologo volevo restituire qualcosa alla figura di Pacciani, che se non fosse stato l’orco che hanno raccontato, oggi avrebbe giustamente piazze a lui dedicate come vittima di malagiustizia. Detto questo, tornando alla tua domanda, non mi vedo nemmeno come scrittore comico. Sono scrittore e basta.»
Cito Il Post: “il suo umorismo nero e surreale, pieno di riferimenti alla cultura popolare italiana, di citazioni raffinate e occasionali oscenità”; RivistaStudio parla invece di “eterologica” per definire il tuo stile letterario e narrativo. Da dove proviene la tua cifra stilistica, quali sono i tuoi maggiori riferimenti, e come avviene il processo di scrittura?
«Alfredo Cerruti degli Squallor e Renato Pozzetto sono le mie due comete. Le storie che ho iniziato a scrivere le avevo tutte in mente fin da piccolo. Gunther Brodolini, per esempio, è una sorta di Giamburrasca del dopobomba, un bimbo tanto tenero quanto necrofilo a zonzo per un Mondo più marcio di lui. Fin da bambino ho sempre avuto una fantasia granguignolesca; non mi sento molto diverso da quando avevo otto anni. Non bevo, non fumo, non mi faccio le canne, ho più di tremila giochi da tavolo e oggi mi giustificherei per cose che ho fatto allora come se le avessi fatte ieri.
Come dicevo, per me scrivere è faticoso, non ho quasi mai voglia di farlo. Ma mi piace la libertà che ti offre la scrittura. Il fatto è che se tu sogni di realizzare il tuo kolossal al cinema, forse vivrai tutta la vita senza poterlo mai girare, perché il cinema è un mondo snervante, fatto di attese, mediazioni, finanziamenti, gestione logistica, mancanza di controllo, contrattempi, piani B, C, e Z. Ma lo stesso kolossal lo puoi invece scrivere in completa purezza, ti bastano un foglio e una penna. L’altra cosa che mi piace della scrittura è la comodità e la velocità nell’ottenere un risultato: d’inverno, sotto le coperte, un attimo prima di addormentarmi, con il cellulare in mano, lì mi vengono le idee più belle. O meglio ancora al mare, sotto l’ombrellone, aspettando di fare un bagno o un pranzo al Touring.»
Nel 2021 arriva la partecipazione a “Una Pezza di Lundini” su Rai2. Com’è stata l’esperienza in televisione?
«È stata un’esperienza interessante, in cui ho conosciuto i segni più e i segni meno di un mondo che mi era sconosciuto, e in cui credo di aver portato qualcosa di mio, mantenendo il mio stile. La televisione però non mi affascina molto: riempire un contenitore “già deciso” e dover stare dietro a troppe questioni logistiche e burocratiche è meno rispondente al mio modo di essere.»
In TV scegli di esibirti a volto coperto, a differenza che nei live.
«Mi dà fastidio la morbosità e il feticismo che il pubblico ha nel voler sapere che faccia ha un artista, che vita fa, se gli piacciono gli uomini o le donne. Io sono molto geloso della mia privacy e fin da piccolo non ho mai amato la macchina fotografica o la videocamera puntate contro. La trovo una grande violenza. Non capisco peraltro perché questa cosa sia così accettata e sdoganata. Non hai idea di quanto spesso io debba giustificarmi su questo tema. Magari con giornalisti che non hanno letto nemmeno una riga di quello che ho scritto, e sono interessati soltanto a queste stronzate. Non si sprecano neanche nelle domande, l’intervista cercano di farla diventare, coi loro poveri mezzi, una sorta di setting terapeutico; è veramente snervante.»
Sempre Giunta, definisce ciò che tu fai una “parodia del kitsch idiota che avvolge il novantacinque per cento dei post su Facebook”. Che ruolo svolge l’opinione comune – intesa qui come il commento medio che puoi trovare scritto sui social – nella tua produzione?
«Da piccolo mi piaceva prendere per il culo chiunque. Mi veniva naturale, ero attratto dai tratti ridicoli o dai modi di fare imbarazzanti delle persone. Non sono mai stato un maestro dell’ironia, ma mi sono sempre trovato più a mio agio nel sarcasmo, perché penso che non ci sia modo migliore per tirare fuori il peggio da qualcuno che metterlo su uno scranno, ammantandolo di pura apologia. Un po’ come faceva Paolo Villaggio.»
Di te si dice infatti che “fai ridere e fai incazzare tutti”; l’impressione è che i tuoi riferimenti alla storia, alla cultura e al costume italiano siano tanto puntuali da risultare efficacissimi a farci scontrare con le nostre mediocrità personali e collettive. Se consideriamo poi anche le waves di censura e cancel culture degli ultimi anni, quanto è difficile scrivere e produrre nel contesto editoriale, mediatico e di stampa attuale? E, se ci sono, quali difficoltà hai incontrato personalmente?
«Essere simpatico, avere un target da far divertire, a me interessa ben poco. Le cose che scrivo le scrivo per me e per chi già la pensa come me. Ad oggi, anche per il fatto che mi piace attraversare gli stili in maniera mimetica, la difficoltà maggiore è costituita dal rischio di essere equivocati, che qualcuno capisca l’esatto opposto di ciò che in realtà volevi dire. C’è un pubblico, attorno al pozzo artesiano di Alfredo Rampi, che si sente particolarmente sensibile perché sta piangendo un bambino, quando in realtà sta lì solo per assaporare il gusto tanninico del sangue. Qual è quindi il modo di rapportarsi a questo pubblico? Non spiegargli come e cosa deve fare, ma cercare di innervosirlo, portando all’estremo il suo cinismo, privandolo dei mezzucci che il cinico usa per sdoganare il proprio pelo sullo stomaco. Lo scopo del black humor non è per me “dirla grossa”, ma cercare di far arrossire un cinico. Come ne “I Soliti Sospetti” di Bryan Singer, dove il cattivo Keyser Söze, trovandosi al cospetto del suo nemico, l’Ungherese, come prima cosa non spara a lui, ma alla propria famiglia. Gli fa capire che se è in grado di fare questo alle persone che ama, figurati cosa potrà fare a lui. Questo “spiazzare” mi piace molto.»
Tu sei sempre rimasto in Val di Chiana (per usare le tue parole, “la Louisiana italiana”). Che rapporto hai col territorio, dal punto di vista personale e professionale?
«Ho sempre abitato in un paesino di campagna che non arriva a duemila abitanti. Il mio rapporto col posto dove sono nato è sempre stato medio. Il mio Shangri-La è la Riviera Romagnola. Nella stagione estiva, vado là in hotel per un mese e mezzo, come neanche il Principe Odescalchi. Ho un legame con la Riviera fin dall’infanzia. In questi anni ho ricevuto molte proposte di lavoro come autore, per le quali avrei dovuto trasferirmi a Roma o a Milano. Non l’ho mai fatto, perché non è nelle mie priorità fare l’autore per altri, ma anche perché non avrei voglia di spostarmi. Sono sempre in giro per lavoro durante l’anno. Mi va bene, ma poi voglio tornare a casa mia, dove sono nato e dove voglio crepare. Facendo questo lavoro paradossalmente mi sono legato molto di più al mio paese. Non sono uno di quelli a cui la provincia va stretta, anzi, ne apprezzo tutta la bellezza e non ne ho mai sentito l’oppressione.»
Un tuo post su Facebook recita “Sto sfogliando le cose che ho scritto in questi anni. Penso che pure a prendere un singolo monologo a caso, pure il meno perfetto, chiunque ci potrebbe costruire sopra un’intera carriera”. Ne approfitto quindi per chiederti se hai già delle idee per il futuro della tua carriera.
«Ho appena concluso il tour “Confessioni di una Coppia Scambista al Figlio Morente”. In autunno porterò in scena un nuovo spettacolo. Nel mentre farò molte serate off, sperimentando anche cose che non ho mai fatto prima. A fine estate uscirà anche il mio nuovo libro, “Canzoniere dei Parchi Acquatici”, sempre per Rizzoli Lizard, con le illustrazioni di uno dei miei disegnatori preferiti, Paolo Bacilieri.»
Chiudiamo così: puoi dire la frase che vuoi ai lettori di Weare.
«Abbiamo una Banca.»
di GEMMA BUI
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Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.