I miei contatti con Martina sono iniziati verso la metà dell’estate. In queste settimane, mentre cercavamo di fissare un incontro e al contempo affrontare i nostri (pochi) giorni di ferie, entrambe lontane da Arezzo e rispettivamente l’una dall’altra, abbiamo parlato spesso: del nostro presente sconosciuto e violento, della distorsione malata della figura femminile nei media odierni, di anarchie non risolutive quanto ineluttabili.
Poi un Lunedì mattina di Settembre, di quelli che ti svegli con il fresco per ritrovarti piacevolmente accaldata a mezzogiorno, siamo finalmente riuscite a incontrarci, incastrando i nostri rispettivi impegni. La conversazione è stata suggellata da un tacito baratto: una colazione preparata da lei in cambio di un mazzo di fiori portato da me. A Martina, scrittrice da quando ne ha memoria, ma anche editor, giornalista ed esperta di comunicazione, basta aprire la porta per emanare un magnetismo forse inconsapevole, di certo non ostentato. Un fascino intellettuale ed emotivo, che promana tra le pareti di una casa che odora di fiori di cotone e purezza d’animo. Non una maestra che ha la pretesa di insegnarti qualcosa; più una figura innatamente materna, accudente ed esperta, che ha cura che i miei pancakes rimangano sempre ben caldi, e che dispensa i consigli di cuore più duri, onesti e utili che io abbia probabilmente mai ricevuto, ma anche risposte a cui basta un istante per rendere elementare qualunque complessità.
Nelle due ore passate insieme parliamo del placido tormento di cui si nutrono le vacanze estive, dell’aridità malata e mortifera di un mondo in piena pazzia climatica, di gatti (i suoi, Cloe ed Herzog, che intanto ci fanno compagnia), cani, donne e uomini, film di Sorrentino confusi con film di Guadagnino, transfert psicologici, lamentarsi come forma preferita di training autogeno, ore di sonno mai considerate davvero sufficienti, relazioni passate ormai pronte per essere perdonate, e tanto, tantissimo altro. Ed è per questo che quella che state per leggere non è un’intervista canonica, con un’idea retrostante o una finalità definita; piuttosto, la fotografia di due ragazze che conversano all’interno di un salotto, e che, nella loro diversità, si sono forse riconosciute legate da una di quelle affinità elettive di cui circa due secoli fa ci parlava il buon Goethe. Un flusso sull’amore e sulla scrittura, sulle cose e su di noi.
Cominciamo dal romanzo.
«E’ uno di quei progetti che voglio fare da tipo vent’anni. Anche per questo è servita la terapia: tempo fa ero fidanzata con un uomo che avevo “scelto a tavolino”, perché nella mia testa pensavo che quella sarebbe stata l’ultima occasione per sistemarmi. Anche lui era sceneggiatore e scrittore, e mi diceva che dovevo scrivere in un certo modo, ogni giorno, era tutto un “devi devi devi”. Io inizialmente ci ho provato, ma ho capito che non era assolutamente la mia strada. Poi, un giorno, la mia terapeuta mi ha detto una cosa tanto banale quanto saggia: “la tua scrittura è tua, solo tu puoi scegliere come trattarla e modularla”. Da lì ho detto “porca puttana!”, mi ero dimenticata il valore di libertà della scrittura: io scrivo perché è il mio strumento di respiro, con cui riesco a rovesciare me stessa, vomitare in maniera automatica tutto quanto; quasi come fossi posseduta da altro, o come se riprendessi un normale battito del cuore. Se devo traslare questa urgenza – che spesso ho – in una regola, essa automaticamente perde di significato e di senso.
Ho iniziato il romanzo unendo tante cose che parlano di me, perché (sempre con le dovute “pinze”) alla fine la cosa che conosci di più sei tu stessa. Io ho preso pezzetti di me e li ho messi in fila; quello che ne verrà fuori è una tassonomia umana, a dir poco triste. L’incipit del libro recita “la mia è una discendenza di donne sole”; tutto parla di fuga dalla solitudine, come se ogni cosa fosse un tentativo per uscire da quella dinamica di dolore, tristezza, senso di inadeguatezza che tutto quanto ci impone. E’ un procedere senza inizio né fine, una sorta di diario-flusso di coscienza, una Lattanzi versione sentimentale, se così vogliamo definire questa tipologia di scrittura. E’ una cosa che di base voglio fare per me stessa, non me ne frega un cazzo di dove e come andrà poi. Mi sono imposta il limite di finire il romanzo tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. Alcune cose che ho inserito nel libro magari sono di tre anni fa, ma ne ho impostato la struttura a fine 2022.
Alla fine ho capito che l’unica vera tematica che ci preoccupa, alimenta e terrorizza è sempre quella della relazione, che sta alla base della vita, ne costituisce l’essenza: trovarsi, ritrovarsi e accettarsi, in qualsiasi forma.»
Quando le chiedo come è nata la sua passione per la scrittura, e quali sono per lei il senso e la finalità della scrittura stessa, mi risponde che “su questo, per quanto mi riguarda, intervengono molto i social network; quando ti esponi, e metti cose di te (vere o fittizie che siano), automaticamente diventi una voce. Spesso le persone, soprattutto donne, mi scrivono, ringraziandomi per il fatto di aver dato espressione ai loro pensieri, sotto tanti aspetti che magari neanche loro avevano il coraggio di ammettere a sé stesse. Io ho sempre scritto per me stessa, specie in tempi più recenti, per un’urgenza di fissare delle cose. Da sempre la scrittura è terapia; a maggior ragione quando ne sei cosciente, e allora la utilizzi per mettere a fuoco delle problematiche, o anche semplicemente per vedere sul lungo periodo quali sono gli aspetti reiterati di te. Quando la gente ti scrive per ringraziarti ti senti onorata, dici “cazzo, che cosa importante”, ma dall’altro lato anche quasi in dovere di continuare.” Ed è sempre un bene? “Ovviamente no; torna il discorso del senso di responsabilità, senti di dover mantenere un livello, un certo tipo di standard, quando in realtà questo va a cancellare quel fuoco, quella spinta iniziale della scrittura, di sfogo ed esternazione.
Io ho sempre voluto scrivere, se a sei anni mi avessi chiesto cosa avrei voluto fare da grande, avrei risposto questo. Ero una bambina sola, senza parenti o amici intorno, con un fratello molto più grande di me. Di conseguenza la mia amica era la fantasia, era tutto ciò che facevo, giorno dopo giorno. Negli anni questa fantasia si è sviluppata con scuole di scrittura – totalmente inutili – eccetera, eccetera, ma di base la mia vita è sempre girata intorno alla scrittura, sempre.”
E come si convive con la realtà quando la tua normalità diventa la fantasia?
«Male, ovviamente; io ho sempre letto tantissimo, fin da bambina, come se i libri fossero il riempimento del vuoto che avevo nella realtà. Di base però, vivendo di pane e storie d’amore, è normale subire un distaccamento dal reale; le tue aspettative di verticalità, profondità o simili sono molto più alte rispetto alla norma. E’ come se tu imparassi le relazioni dai libri; di conseguenza tutto ciò che ti capita nella vita non ti basta mai. Per questo siamo delle disgraziate (ride – NdA).
Se prendi il libro in maniera attiva, non solo come una favoletta per addormentarti, ma lo studi, ci stai dentro, lo colleghi ad altro, diventa un mondo di rapporti, interazioni, problematiche e risoluzioni. Quando trasli quel tipo di universo e lo metti sopra alla quotidianità, fatta di noia, rotture di palle, persone sbrigative che non hanno interesse né voglia di approfondire le cose, chiaramente si crea un divario, e quel divario sei tu, che rimani fuori, a cavallo tra due realtà. Pensi a tutto quello che potresti vivere, al resto dei mondi che non hai, e ti incazzi perché stai vivendo in questa realtà, che non ti corrisponde, quando sai che anche tutto il resto è possibile, perché se è immaginabile, allora è anche realizzabile. E’ abbastanza ischemico come meccanismo: è ovvio che la realtà è una, è questa, è e al contempo non è il migliore dei mondi possibili, ma ci vivi dentro, e molto spesso ci sono cadute, muri, strade senza uscita. Non tutto fluisce come vorresti, e ogni tanto ti trovi in affanno. Io vivo di libri, di storie, di tutto ciò che è “l’altrove”; di conseguenza è difficilissimo stare nel “qui ed ora”, per me diventa quasi contro-intuitivo scegliere ciò che è meglio, perché per me la normalità è star male. Ma è uno scarto che è necessario fare. Come se fosse una sorta di rigurgito, di cambio di marcia; è imparare a volersi bene, e non si può che fare così.»
Il mio fatalismo adesso avrà la meglio: hai mai paura di stancarti della scrittura, che essa possa non darti più niente un giorno, o che la vena possa esaurirsi?
«Probabilmente no, perché il lavoro che ho scelto mi fa fare sempre cose diverse. Essendo un lavoro di scrittura declinato in varie maniere, trovo sempre nuove persone e opportunità. I social poi cambiano velocemente, quindi devi sempre reinventare anche quel particolare modo di scrivere. Magari può capitare che ti annoi perché non ti piace più la direzione che sta prendendo una determinata cosa, ma se continui ad avere quell’urgenza, quel fuoco sacro che è la scrittura, la declinazione che ne fai sul lavoro viene da sé, di conseguenza.
Il fatto che possa non darmi più niente è un rischio; probabilmente poi ci muoio (ride – NdA). Per me la scrittura è sempre stato l’unico, vero elemento che ho per comunicare. Io odio parlare, per quanto sia estroversa, non racconto mai niente di me. L’unico modo che ho per vedermi intera – mi viene in mente Calvino – è la scrittura, perché con essa tu vedi uno spazio libero davanti a te, uno specchio, uno scoperchiamento di tutto ciò che sei e hai dentro.
La scrittura, per come la intendo io, è – letteralmente – il braccio dell’anima, un’espressione di sé, di ciò che ci succede, del pensiero e di ciò che c’è dietro. Di conseguenza, l’esaurimento della scrittura per me corrisponde all’esaurimento delle cose che una persona ha da comunicare, però ora come ora la considero letteralmente come una sorta di morte. Se non hai più nulla da dire sei una persona ormai vuota, consumata. Nella vita poi può succedere qualunque cosa, quella passione e quell’urgenza possono sempre mutare, possono cambiare i paradigmi e quindi l’espressione del sé. Però io scrivo da trentadue anni, direi che ormai forse è effettivamente questa la mia strada (ride – NdA).»
Definire il concetto di creatività è indubbiamente complicato. Direi che la creatività è un atto di amore e di egoismo, e i creativi delle specie di “franchi tiratori”, persone in qualche modo slegate dai consueti stilemi della quotidianità. Ci sarebbe da aprire una parentesi, poi, anche sul privilegio del potersi “permettere” di essere creativi.
«Io non mi sento affatto una persona creativa, dal momento in cui ho tantissime persone creative – amici, colleghi – intorno. Non ho quell’immediatezza di idee o simili. Io semplicemente scrivo di sentimenti; ho un altro tipo di verticalità. Non potrei mai definirmi scrittrice perché mi sentirei arrivata, cosa che aborrisco nella maniera più assoluta. Non ho mai avuto la percezione di avere cose da insegnare, perché sono io la prima a non saperne mai abbastanza. Di base per me la definizione di sé è un errore di forma, perlomeno nel mondo creativo.
Noi siamo persone che fanno attività reputate intellettuali o creative. Io non faccio solo quello, tutto quello che ho amato ho provato a declinarlo del lavoro; ho sempre provato a mettere la scrittura al servizio del lavoro, per vivere di esso: che sia un’agenzia di comunicazione, i social, il giornalismo, che nell’insieme mi permettono di avere lo spazio – non retribuito – per coltivare la mia scrittura. Non è un compromesso, sono delle specie di imbuti: cerco di fare il meglio che posso facendo quello che amo, senza prostituirmi, per avere poi il tempo di fare ciò che, veramente e puramente, amo. Sono convinta che il crescere, lo scegliere, diventi un modo per non rinunciare a ciò che ami riuscendo a farlo comunque, trasformandolo in qualcosa di diverso senza straniare mai te stessa. E’ un atto di arguzia, secondo me.»
Sull’importanza dell’ego nel suo mestiere, Martina mi dice che “dipende, credo che, come in ogni ambito artistico-culturale, tu possa fare le cose in due maniere: o per onanismo, vedendo la scrittura solo come un modo e un mezzo per farti ammirare e adorare, oppure al contrario, con una scrittura che diventa urgenza, bisogno di esprimere pensieri, idee, paure. L’ego è alla basa di ognuno di noi, è normale; anche lo stesso processo di creazione lo puoi attivare solo partendo da un ego, da un identità, da una ricerca di riconoscimento di te stesso. “Urgenza” è la parola che più per me è sinonimo di scrittura. L’ego c’è, è la partenza; poi dipende da come lo declini.“
Parlando di editoria: come e perché è cambiata negli anni, e soprattutto come ha cambiato l’approccio delle persone alla scrittura? Io pensavo che la letteratura, come la musica e la pittura, sarebbero riuscite a non morire mai. Ora credo invece che siano mutate in qualcosa di ancora diverso e nuovo, che si allontana dall’arte per avvicinarsi di più al prodotto.
«E’ lo stesso principio del fast fashion. Con la fruizione, l’utilitarismo, la velocità degli acquisti, non siamo più abituati a stare sulle cose. C’è una scelta bassissima con una qualità infima, e tutto si abbassa di livello. Aldilà dei numeri, in editoria penso sia indicativo il fatto che vengano pubblicati tantissimi libri con una tiratura minima, e un enorme percentuale di questi titoli non venda neanche dieci copie.
Non è un discorso di decadimento, ma di cambiamento; come noi siamo diversi dai nostri genitori, e così via, a ritroso. Oggi sono cambiate le necessità: ti viene chiesto un altro tipo di presenza e di velocità. I tempi di attenzione sono differenti. Se ci fai caso, i libri sono sempre più corti; un altro esempio sono le serie TV, a discapito dei film. Quando sento dire che oggi non ci sono più gli intellettuali di una volta, penso “ma chi se li cagherebbe oggi gli intellettuali di una volta?”. La gente ha bisogno di un altro tipo di intellettuale: Michela Murgia ha avuto un successo incredibile, ma solo dopo essere morta; prima era vista come quella pesantissima, scomoda e rompicoglioni. Siamo sempre lì, è tutto da inscrivere nel periodo in cui viviamo. Tutto per me oggi è molto più brutto; non a caso leggo e ascolto gente morta (ride – NdA), sono cresciuta con altro, ho un amore folle per tutto quello che è stato, ma neanche mi sento di condannare la direzione in cui sta andando il mondo. Il leitmotiv di tutto tanto è sempre il cambiamento, la cosa più lontana ma anche inevitabile dell’esistere umano. Per quanto l’uomo lo aborrisca totalmente, l’unica cosa che è e rimarrà sempre è quella: l’entropia.»
Concludiamo così: i primi tre libri che ti vengono in mente?
«”L’Estate Incantata” di Ray Bradbury. E’ uno dei libri più incantevoli che abbia mai letto, perché parla della malinconia, di quello che è passato e che non riavrai più. Racconta l’estate di alcuni ragazzini che comprendono di star diventando grandi, e che tutto quello che hanno non ci sarà più in futuro. E’ l’amore, la passione, l’emozione della freschezza dei dodici anni, pura poesia. Amo follemente anche “It” di Stephen King, un altro libro che parla di quella piccola fascia ibrida di età in cui comprendi di non essere più un bambino, e quindi ti formi, e impari a capire chi sei davvero. Quello per me è un mondo pazzesco, un momento delicatissimo, bellissimo e struggente. Per Calvino poi ho un amore folle, “Le Città Invisibili” è un altro dei miei libri preferiti. Questi sono quelli che mi vengono in mente.»
E tra i contemporanei?
«Ultimamente ho letto “Qualcuno che Ti Ami in Tutta la Tua Gloria Devastata” di Raphael Bob-Waksberg, lo sceneggiatore di BoJack Horseman: sono racconti che ti stroncano, ti parlano delle umane debolezze e fragilità, tutte declinate qui dentro. Anche il suo modo di scrivere è bellissimo. Tra i contemporanei non è semplice, ma sicuramente prediligo gli americani: Sally Rooney, Peter Cameron, Jonathan Safran Foer, anche se spesso tanti contemporanei sono forma e stile, più che contenuto. Non è facile, la scrittura spesso diventa un dover dimostrare qualcosa. Anche Roberto Bolaño mi piace molto. La poesia poi è un mondo a sé, ho una passione folle per Mario Luzi e per l’ermetismo.»
Grazie Martina.
«Grazie a te.»
di GEMMA BUI
Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.