Sono sempre stata interessata al mondo della sessualità femminile, della maternità e in particolar modo della nascita. La corrente femminista ha contribuito ad alimentare questi miei interessi; infatti, in chiave femminista, ho iniziato a percepire la sessualità, la maternità e la nascita non come un qualcosa di predefinito e stigmatizzato, ma come un qualcosa che, se vissuto liberamente, non generasse ulteriore oppressione al genere femminile, ma libertà di espressione per i nostri corpi.
Quest’interesse mi ha portata a intraprendere un percorso universitario nella facoltà di ostetricia; ciò mi ha permesso di conoscere più a fondo le materie e, tramite il tirocinio formativo, le pratiche assistenziali applicate in ostetricia e in ginecologia. Frequentando l’ambiente ospedaliero mi sono resa conto di come, anche in questo contesto, si percepisca un’aria di prevaricazione sul genere femminile.
In particolare, mi riferisco al fenomeno di medicalizzazione dell’ostetricia; fenomeno che, se analizzato più profondamente, svela le sue radici patriarcali.
Per “medicalizzazione” si intende il voler trasformare un processo fisiologico umano, e quindi naturale, in un “problema” che necessita di trattamento medico, con il preciso intento di far rientrare l’organismo all’interno di quelli che nel modello bio-medico sono considerati gli ideali auspicabili in termini di funzionalità, capacità e aspetto di un corpo.
In ambito ostetrico-ginecologico la medicalizzazione porta a stabilire quali funzioni, dolori e alterazioni del corpo di una donna siano “normali”, cioè appropriati e accettabili e basandosi su questi esso costruisce il suo ideale di mestruazioni dolorose, travaglio prolungato, puerperio regolare, ecc…
Ci sono situazioni in cui le donne si trovano perché “consigliate” o “raccomandate” dal personale medico-sanitario, che si pone, talvolta, con fare autorevole e paternalistico; nonostante l’esistenza di libertà di scelta, che non sappiamo di poter avere sui nostri corpi.
Durante i colloqui in cui il personale medico-sanitario “raccomanda” di prendere una scelta piuttosto che un’altra, si dedica molto spazio e tempo a informare la donna sui rischi, le frequenze, i grafici e le curve di probabilità, come se la gravida fosse tenuta a sottoporre il contenuto del proprio corpo ad un controllo di qualità. Minori sono lo spazio e il tempo dedicato alla componente emotiva e sensazionale della donna.
La madre si trova così costretta a decidere tra due forme di esistenza: la “sua” vita, che già le apparteneva, e quella che le è stata assegnata.
In alcuni casi l’approccio risulta invadente, e non sempre finalizzato a tutelare realmente la persona o la diade donna-bambino. Vi sono interventi, infatti, che vengono eseguiti in ottica di medicina difensiva; essi vengono fatti passare come “necessari”, senza però tener conto del vissuto che segna la persona all’interno dell’esperienza di travaglio e di parto, in cui ogni decisione incide ampiamente sul futuro della donna e della relazione madre-bambino.
Ancora una volta i nostri corpi vengono oggettificati, percepiti come incubatrici del feto che portano in grembo, macchine che devono “espletare il parto” a tutti i costi, non importa come o con quanto dolore.
Un altro aspetto da analizzare è differenza di visite eseguite in gravidanza, rispetto a quelle che invece vengono eseguite in puerperio, evidente dimostrazione del fatto che la donna dev’essere ipervigilata fintanto che è la diretta responsabile del nascituro. Non appena avviene la separazione dei due corpi, si crea un disequilibrio assistenziale, in cui il neonato è invaso da visite pediatriche, mentre la donna è abbandonata a sé stessa.
Dunque, persino in un ambiente che dovrebbe sostenere e assistere la donna, ponendola al centro, emerge una subdola manifestazione di misoginia: è presente un forte legame tra medicalizzazione e patriarcato.
Così facendo, alle donne non si concede la possibilità di vivere liberamente l’esperienza della gravidanza e del parto, espropriando la donna della sua capacità di avvertire, percepire e sentire.
a cura di FEDERICA FRANZESE
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Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.