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Una vita di assistenza... Non un’esperienza
Carlotta Pianigiani è stata inserita dal Time tra le 100 personalità di spicco in ambito medicale a livello mondiale, grazie ad ALIMA, l’organizzazione umanitaria per cui lavora

Carlotta Pianigiani, aretina con cervello (e cuore) più che in fuga in missione, è stata inserita nientemeno che dal celeberrimo periodico Time tra le 100 personalità di spicco in ambito medicale a livello mondiale, grazie alle mirabili attività svolte per ALIMA – ALliance for International Medical Action, l’organizzazione umanitaria per cui lavora. Stop alle presentazioni, ogni altra riga sottratta a questa succulenta chiacchierata in collegamento tra la Valdichiana e l’Africa Occidentale, con accento aretino ben presente tanto in chi domanda quanto in chi risponde, sarebbe un delitto informativo.

Sto intervistando una delle persone inserite dalla rivista più diffusa a livello mondiale nella lista delle 100 più influenti del Pianeta nell’ambito della salute… Wow! Quali sensazioni hai provato per un riconoscimento così prestigioso, anche se immagino che nell’ambito dell’assistenza umanitario-medicale in cui operi con la tua ONG, il coronamento del tuo lavoro sia sul campo e nel quotidiano?
«Sensazioni contrastanti; sinceramente mi ha un po’ messo in imbarazzo. Innanzitutto perché sulla lista ci finisce soltanto una persona che, per quanto team leader del progetto di assistenza umanitaria nella grave crisi scoppiata recentemente ad Haiti (che è stato quello che Time ha preso in considerazione per il riconoscimento), non opera da sola, ma ha alle sue spalle il lavoro di un’intera equipe. Poi, probabilmente, ho anche un’indole poco incline ai riflettori. C’è stata una grande risonanza, sia mediatica sia interna ad ALIMA, che me lo ha confermato a colpi di guance rosse. Inutile dire che la soddisfazione è stata tanta, ma anche la consapevolezza di vivermi questo momento appunto come un momento. Si mette in tasca l’esperienza positiva e si va avanti a lavorare sui tanti progetti in corso.»

Prima di addentrarci in concreto sulla tua attività, urge un piccolo flashback: qual è il percorso che ti ha portato dai banchi liceali aretini alla premiata prima linea delle ONG su scala globale? Cosa ti ha mosso e come?
«Le motivazioni negli anni mutano. Laureata in infermieristica, ho da subito avuto una spinta verso il volontariato. Varie esperienze tra Ciad ed Etiopia mi hanno fatto capire come questa forma di supporto umanitario risponde più ad esigenze interiori di chi la pratica, piuttosto che a reali esigenze sul campo. Il mio primo vero lavoro in cooperazione internazionale è stato con un’ONG italiana, INTERSOS, in Repubblica Centrafricana. Lì mi sono resa conto della professionalità, della complessità e dell’unicità di questo settore, fattori di cui non mi pare ci sia ancora molta coscienza in Italia. In tanti mi hanno continuato a chiedere, per anni: “Allora, è bella questa esperienza”? Non è un’esperienza, è la mia vita, mica turismo! Un’altra convinzione che purtroppo riscontro, molto diffusa, è quella che la nostra attività nelle aree più critiche del Mondo debba essere quella di esportare conoscenza, insegnare un non meglio precisato qualcosa… Quando la realtà è che molto più spesso si impara e ci si arricchisce dai diversi contesti in cui operiamo, in cui giocoforza ci dobbiamo calare ed adattare in situazioni estremamente delicate per poter intervenire in modo veramente efficace.»

Se l’ottimismo è il profumo della vita, l’occidentalismo…
Va beh, andiamo avanti, non perdiamo eleganza e restiamo alti come i temi che stiamo trattando…
«Ad intervenire, in supporto ai fondamentali staff locali, sono anche espatriati, per la ricerca del mantenimento di uno dei principi cardine delle organizzazioni umanitarie: la neutralità. Si cerca infatti di intervenire in contesti tendenzialmente conflittuali con personale che sia il meno condizionato possibile nella propria attività da connivenze o semplici e inevitabili influenze culturali, ma nulla c’entra la fantomatica mancanza di conoscenze locale. Ogni operazione che la nostra ONG decide di mettere in atto è studiata a lungo e in modo approfondito, in modo da avere un impatto nell’ambiente d’intervento che sia, a tutti i livelli, di inserimento, di supporto organico e non di squilibri dovuti ad interventi mal calibrati, a cui i contesti in crisi sociale ed economica sono molto sensibili.»

Finalmente apriamo la finestra sullo svolgimento pratico del tuo lavoro che, come tu stessa hai tristemente ricordato, viene spesso percepito in modo sminuente come un’esperienza. Questo articolo prende la notizia Time-centrica come trampolino per tuffarsi nel dietro le quinte della vitale attività di organizzazioni umanitarie come ALIMA, di cui tu fai parte.

Puoi darci un’idea della tua quotidianità, che tutto dev’essere fuorché ripetitiva?
«Banalmente, dipende innanzitutto da dove mi trovo. In questo momento, una parte del mio lavoro si sviluppa al desk che si occupa di monitorare le allerte a livello mondiale, siano esse epidemiologiche o legate ad eventi come catastrofi naturali, spostamenti massivi di popolazioni, attacchi militari o para-militari.
Un’altra parte, poi, si concretizza nel trovare budget, finanziamenti, risorse umane, facilitazione logistica e tutto ciò che è necessario per i progetti in avvio nei Paesi in cui siamo già operativi.
Inoltre, c’è anche il lato di sviluppo operazionale, legato ai progetti che vorremmo implementare in nuovi contesti e per cui c’è quindi da fare un lungo e paziente lavoro preliminare, di preparazione amministrativa, strategica, economica, con un focus in testa: qual è il valore aggiunto che possiamo apportare rispetto alle realtà già presenti? Infine, si passa al lato operativo vero e proprio, che sul campo fa emergere problematiche sempre nuove da gestire. Ad esempio, come trasporto i capitali? Come entro nel Paese ed arrivo alla popolazione in sicurezza? Come mi rapporto ad amministrazioni che nel migliore dei casi sono sanzionate e con poca accessibilità operativa? Le difficoltà sono costantemente dietro l’angolo, ma, ad essere sincera, una delle parti che mi piace di più del mio lavoro è trovare il modo di superarle!»
Cosa diresti a chi, magari ispirato dalle tue parole di pura concretezza e dedizione all’assistenza socio-medicale, volesse dedicarsi a questa vita?
«Sicuramente di pensarci molto bene, perché significa, almeno inizialmente se non sempre, abituarsi a passare molto tempo lontani dai propri affetti e a trovare quindi un proprio equilibrio in solitudine, non semplice poi da riadattare a quello che si ha con chi è a casa, per cui si deve accettare di non poter essere costantemente presenti. Si creano molti legami, ma per forza di cose volatili, c’è più che altro da essere in grado di mettersi in discussione e dialogare con la propria parte più profonda, entrando in contatto continuamente con culture anche nettamente diverse che portano a rivedere gli schemi con cui si è cresciuti. Questo spaesamento emotivo è però certamente ripagato da una consapevolezza diversa sulle priorità degli umani e su ciò che conta davvero nei rapporti tra di loro. Si sviluppa, entrando in contatto stretto come non mai con le più diverse persone accomunate dal bisogno di un aiuto, una sana intolleranza verso il razzismo e verso l’autoproclamata superiorità occidentale, perché se ne vede con la lente d’ingrandimento l’infondatezza.»

di ALESSIO FRANCI
Immagini gentilmente concesse da ALIMA

Alessio Franci
ALESSIO FRANCI

Musicomane innamorato di ogni applicazione del linguaggio. Cerco storie e suoni che mi facciano vibrare tanto ad ascoltarle, quanto a raccontarle. Osservo, rifletto, percuoto, vivo. Mi muovo per il mondo senza filtri e senza la pretesa di trainarlo, col solo obiettivo di conoscerne ed apprezzarne le sfumature più o meno armoniche.

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