“Support Your Local Heroes” dicono gli americani. Impossibile non pensare immediatamente agli Avanzi di Balera, veterano trio comico aretino, composto da Santino “Penna” Cherubini – spirito da leader e fortissimo nelle imitazioni, Alessandro Lisi – fenomeno dell’espressività e della comicità più ruvida, e Francesco Maria Rossi – spalla dai modi intellettuali e un po’ impacciati. Un’intervista surreale che ripercorre la carriera trentennale degli Avanzi, tra incontri fortuiti, aneddoti, spettacoli e video-trilogie (tra le tante, “I Sogni nel Cassonetto”, “Salvate il Soldato Biagianti”, “Uscio a Uscio”, “Maiali a l’Uva”, “Apocalisse a Scapruggine”, “Elettroencefalogramma Concavo”), dove realtà e fantasia si mescolano fino a confondersi dentro ai racconti, e al lettore non resta che accettare questo “patto kafkiano”. E’ bello così, perché gli AdB sono anche questo.
Quando avete cominciato, come vi siete conosciuti e come è venuta l’idea di fondare gli AdB?
«Santino: Io ho iniziato singolarmente molti anni prima, facevo l’imitatore, andavo in giro a fare serate e lavoravo con un’agenzia di Roma. A un certo punto non ne potevo più di provini e quant’altro, e ho iniziato a fare la radio ad Arezzo con Leonardo Franceschi, poi una trasmissione a Teletrutria con Massimo Giani, era il 1993. Poi ho conosciuto Alessandro e successivamente Francesco, in qualche modo dovevo fare serate, e da lì è cominciata.
Francesco: Mi scelse perché portavo una giacca con le paillettes, mentre scelse Alessandro perché era uno dei più grandi imbecilli che avesse conosciuto in vita sua (ridono – NdA).
S: Un collega di lavoro mi disse “c’è uno che fa delle cose strane”, io ero un po’ prevenuto. Alessandro quella sera non spiccicò parola, era inchiodato; a fine serata partì la musica, mentre tutti ballavano lui iniziò a fare delle smorfie, era molto kitsch; istintivamente, lo trovai fantastico. Gli chiesi di fare due chiacchiere, perchè avevo bisogno di soggetti per la trasmissione a Teletruria.
Alessandro: Venni a casa di Santino, avevo un giubbotto “rosa cudenna” e ci facemmo una foto insieme a Ponte Buriano. Io non parlavo, basavo tutto solo sulla mia mimica facciale.
S: Lo utilizzavo come una specie di jingle visivo per gli stacchi pubblicitari. Lui non faceva altro, solo queste gag mute.
A: Il meglio che ho fatto era biascicare il masticone mentre intervistavano i personaggi.
S: Con Francesco ci siamo trovati dopo la fine della trasmissione; lo conobbi casualmente a una serata di parrucchieri.
F: Sostituivo il presentatore, che aveva avuto un disturbo intestinale.
S: Pensa te, gli AdB sono nati da un disturbo intestinale. Senza Francesco probabilmente la cosa non avrebbe funzionato allo stesso modo.
Facemmo delle serate insieme, lo spettacolo si basava sui miei personaggi. Lì sono nati l’Orafo, il Paoloni, e altri. I soggetti che mi facevano da spalla si alternavano: era assurdo, un comico con due spalle! Come dico sempre, i comici sono come i bacelli, danno il loro meglio con una buona spalla. Francesco mi colpì subito per via della sua situazione familiare, del tutto surreale. Quindi mi dissi “proviamoci”. Alessandro al tempo si esibiva con un costume fallico, senza battute. In piena estate in Piazza Grande, con un caldo che si pelava, facemmo un altro spettacolo; c’era il pienone, Alessandro si cacava sotto, non sapeva cosa dire sul palco, e corse a casa a prendere un ombrello, dicendomi di non preoccuparmi. Quando salì sul palco, io gli chiesi “come va?”; lui aprì l’ombrello, mise la mano fuori e disse “piovarà?”. La risata fu plateale.
A: Vidi che ridevano, quindi la ridissi tre o quattro volte, e loro risero di nuovo. Poi scesi dal palco.
S: Ci prese gusto, dopo una settimana arrivò a casa mia col costume di Piovarà: impermeabile, occhiali, canottiera e pinne. Approfondimmo quindi il personaggio, assumendoci il rischio che sarebbe potuto andare benissimo o anche malissimo. Lo ripropose per la prima volta in pubblico a una serata per il Quartiere Santo Spirito in Piazza San Jacopo.
Tutto è stato casuale, anche l’idea di fare poi dei video. Il primo è stato “I Sogni nel Cassonetto”. Ai tempi c’erano i VHS, noi nella vendita home video ad Arezzo abbiamo battuto anche “Il Ciclone”, con 1400 copie a fronte delle sue 1000. Quella è stata la linea di demarcazione della nostra popolarità, lì è nato il “mito”, perché la gente ha iniziato a conoscerci anche fuori dalla nostra cerchia di amici. Un altro dei primi sketch di Alessandro era quello dentro a un bidone.
A: Chiedevamo agli organizzatori delle serate di trovare e pulire un cassonetto, da mettere a nostra disposizione. Qualche volta non era pulito (ridono – NdA).
S: Lui stava lì dentro chiuso per dieci minuti, e descriveva tutti i paradossi in base agli oggetti che trovava.»
Quanti spettacoli avete scritto in totale?
«F: Quasi quattro video-trilogie.
S: I video consistevano negli spettacoli estivi abbinati a un corto, come sorta di trade union che legasse il tutto. Per “I Sogni nel Cassonetto” avevamo un regista brasiliano, che intellettualizzava tutto, voleva fare il teatro. Alla fine, anche questo viaggio immaginario alla ricerca di un teatro che alla fine non c’era, funzionò. La gente veniva a vederci alle sagre, essenzialmente quindi con l’interesse di cenare. Poi se dopo c’eravamo anche noi, meglio.
F: Divenne la moda del Natale, dopo aver mangiato in modo grossolano, digerire guardando gli AdB in video. I videoregistratori arrivarono ad Arezzo in primis per riprodurre i video porno. Poi iniziarono a usarli anche per noi.
A: E anche per registrare i video della Comunione. Poi per sbaglio ci registravano sopra e veniva fuori la Comunione-porno. Un aneddoto: una volta le emittenti locali usavano le cassette usate per registrare i servizi; epocale l’episodio in cui durante il rosario apparve improvvisamente un’attrice hard in una posa decisamente poco religiosa. Fu bello (ridono – NdA). Oppure quell’operatore che finì la cassetta e fece rifare lo sprint finale durante una gara di ciclismo.
S: Ne sono successe di ogni. Dopo la prima videocassetta, a una serata a Battifolle, non capivamo perché, c’era un sacco di gente. Noi eravamo abituati al massimo alle solite 300 persone che venivano a cenare alle sagre. Da quella volta vedemmo che il pubblico veniva apposta per vedere noi. Poi ci fu Quarata, e la famosa storia del blocco del traffico a Bagnoro: la gente veniva da ambo le direzioni e iniziò a parcheggiare in seconda fila. Da lì il passaparola, con mediamente 1000 persone a ogni serata.»
Qual è il vostro rapporto col pubblico? Con gli aretini si è creata una sorta di fidelizzazione, è perché si rivedono in voi?
«F: La comicità funziona quando c’è un’identificazione. Il territorio, il linguaggio, i riferimenti super-locali sono importanti. L’aretino, più che riconoscersi, riconosce il suo vicino, anche se poi magari anche lui stesso è quel tipo di persona. La capacità di loro due è quella di saper creare una sintesi di caratteri, stereotipi. Se poi hai successo, il pubblico ti segue sempre di più. Attiri i curiosi, gli invidiosi, nel pubblico c’è di tutto. Uno di Castiglioni venne a vederci ventitrè volte, non rideva mai.
A: Ci disse “a me non mi piace ridere, mi piace veder ridere quell’altri”.
S: Spesso il pubblico delle sagre dopo cena si addormentava: bevevano e mangiavano in maniera allucinante, un casino incredibile, le file per fare tutto.
A: I Carabinieri ci fecero smettere ad Agazzi, perchè uno si sentì male e l’ambulanza non passava da quanta gente c’era.
S: Dissi “se dico io che dobbiamo staccare, si mettono a ridere, non mi prendono sul serio”. Poi fortunatamente passò e noi continuammo.
A: Un’altra volta ci fu un patteggiamento; avevano finito le bistecche, uno andò a prenderle in motorino all’Olmo, tornò in fretta e furia, “vestito” di carne, e ci disse “ora che l’ho messi a tavola, potete anche smettere” (ridono – NdA).
S: Uscì un articolo su “7” del Corriere. Si intitolava “Non Solo Zelig”, e parlava dei fenomeni comici locali, tra cui anche noi. Da lì in poi, tutti i tentativi dei manager di accalappiarci non hanno mai avuto successo. Noi come gruppo non abbiamo mai avuto agenti. Ai tempi provò a contattarmi l’agente di Panariello, ma io all’epoca lavoravo ancora con l’agenzia di Roma, che mi dava la libertà di fare quello che mi pareva.
Facemmo poi “Tre Uomini Senza una Gamba”, cortometraggio finanziato da Rai Cinema. Il regista non fece bene alcune riprese, per cui serviva la voce narrante per spiegarle. Io la feci in un aretino abbastanza pulito, il delegato Rai la sentì e disse “ma questo che è?”. Ai tempi c’era il mito del toscano, ma l’aretino del toscano ha ben poco. Quindi gli feci la voce di Pieraccioni, e lui disse “perfetto”. A posteriori non fu il nostro miglior lavoro, anche la sceneggiatura non era forte. All’inizio dovevamo farlo con lo sceneggiatore di Virzì, e magari sarebbe andata in un altro modo.
F: Il video serviva proprio per fare poi un film, che scrivemmo anche, dove io mi innamoravo di una bambola gonfiabile.
S: Involontariamente nei nostri video abbiamo citato tantissimi episodi storici poi realmente avvenuti: l’irruzione dei guerriglieri ceceni nel teatro di Mosca, o la cattura nel covo di Bin Laden. Ci siamo anche inventati come fare gli effetti speciali: per scendere col paracadute ci siamo legati alle forcelle del trattore, facendo una ripresa dal basso, l’atterraggio l’abbiamo realizzato con il booster per gonfiare le ruote del camion: dodici atmosfere sparate dentro a un ballino di cenere mista a penne di gallina. Spesso abbiamo rischiato veramente di farci male, ma era creatività pura, inventavamo cose assurde. Lì ti rendi conto veramente del divertimento che c’è dietro tutto questo.
A: Ci facevano entrare ovunque; la corsa sull’acquedotto del Vasari oggi sarebbe da denuncia.
S: Facemmo alcune riprese anche allo zuccherificio di Castiglion Fiorentino, dentro una montagna di bietole. Iniziò a franare tutto, rischiammo veramente la pelle. In “Elettroencefalogramma Concavo” si vede l’interno del silo, dodici metri di zucchero. Eravamo completamente ricoperti, Alessandro iniziò a fare finta di sniffare.
Alla fine sono le idee a funzionare, le battute vengono dopo. Noi perdevamo più tempo a scrivere i titoli che le sceneggiature, perché i titoli sono più evocativi. Noi siamo sempre stati fuori dalle logiche dello spettacolo, anche un agente non ci avrebbe mai gestito: prendevamo le serate venti giorni prima, lasciando i comitati delle sagre nella suspence più totale. Eravamo quotati in base ai coperti che producevamo.
A: Il pubblico della sagra poi è adrenalinico.
S: E’ stata la nostra fortuna: la gente rideva ma spesso non si ricordava neanche la battuta, era annebbiata, e magari tornava la volta dopo. Le sedute spettavano a chi aveva mangiato, quindi le molte persone che dopo venivano a vedere noi restavano in piedi. Certe volte addirittura gli organizzatori predisponevano dei “salottini”: tavoli di plastica con sopra una bottiglia di spumante da €1, venduti a €100 l’uno. Situazioni paradossali.
A: Il privé di Ruscello era invece un capannone fatto di bandoni, senza finestre. Ci trovavi Sindaci, avvocati, medici, politici. Ci buttavano dentro dicendoci “andate a farli ridere”. Loro impazzivano, ma si schiantava dal caldo.
S: Questo paradosso era a sua volta comico, era autentica stand-up. Ai tempi provammo anche ad andare a Zelig, ma non andò, perché lì hai tempi rigidissimi, questione di secondi. Se sfori paghi migliaia di euro al minuto. Chi ragiona solo in termini di produzione tempistica non può garantire la leggerezza dei contenuti, noi dobbiamo essere liberi nell’esprimerci. Spesso nei nostri spettacoli i tempi cambiavano, succedevano imprevisti su cui noi giocavamo. In TV non è possibile, anche perché il pubblico è abituato a quei ritmi e vuole quei ritmi, che sono gli stessi per tutti e che quindi finiscono per non far risaltare niente.»
Com’è cambiata la comicità negli anni? E’ più difficile oggi far ridere gli aretini?
«A: Secondo me c’è una crisi della risata, la gente non ride più come prima, non si trova più al bar con gli amici. C’è una falsa cultura; è bello ridere anche dell’ignoranza, le persone che trascinano sono quelle al limite, che oggi non si trovano più, sono tutte omologate.
S: Oggi i social sono talmente veloci che i tempi comici vengono distrutti. I nostri personaggi spesso non avevano battute, ma erano ben caratterizzati. Allora ce lo potevamo permettere, oggi no, perchè dopo due minuti che guardi un video, vai oltre. Noi ti lasci trasportare, affascinare, non entri dentro le cose. Non c’è più tempo, è tutto più superficiale, perché vogliamo tutti sapere subito cosa succederà dopo. Oggi c’è una vastissima scelta, con cambiamenti di stati d’animo molto repentini. Quando facevamo spettacoli, l’incipit, il modo di entrare, tra fondamentale, perchè “agganciava”. Oggi non riesci a far entrare le persone dentro le tue storie, perchè sono distratte.
F: Dopo le tragedie sociali avvenute, non c’è più socializzazione. Anche il politicamente corretto rende impossibile tutto. Posso capire uno sportivo, ma un performer non può dipendere da questa visione. Nel politicamente corretto tra l’altro tutto rimane in superficie, non avviene mai un cambiamento reale. La comicità è variegata, di tanti tipi: satira, ironia, slapstick, commedia sofisticata. Per fare satira devi sporcarti, è un’arma potente ma anche pericolosa, da saper gestire.»
E invece, com’è fare la spalla?
«F: Alessandro una volta mi fece un complimento, mi disse “non avevo mai visto un salame fare da spalla”. Ognuno ha il suo talento – o la sua mancanza di talento – l’importante è non ridere mai. Io ho firmato un contratto con loro per cui non posso mai ridere.
S: Le spalle fanno sempre troppo i simpatici, credo che un po’ si debba rinunciare al proprio ego. La nostra elevazione comica dipende dalla sottrazione di Francesco, che crea un’escursione maggiore. Il cialtrone, il popolano, vedono l’intellettuale (Francesco – NdA) e lo vogliono mandare affanculo. E’ esistito in realtà anche un pubblico un po’ più “colto”, noi siamo sempre stati associati alla volgarità, anche se essa non sta nella parola, ma nell’atteggiamento, nell’intenzione, è sempre gratuita. Abbiamo ideato negli anni personaggi con battute “forti”, capisco che per chi ci veniva a vedere potesse essere così. Ma era solo perché il registro e il linguaggio erano autentici. C’erano professori, linguisti, che venivano agli spettacoli e prendevano appunti; noi non abbiamo mai inventato nulla. Chi ha fatto teatro e viene dall’Accademia ha un’impostazione che non riesce a togliersi. Noi, non avendo filtri, prendiamo esattamente ciò che arriva e così lo restituiamo, riproponiamo le cose così per come sono.
A: Non ti poni il problema se una battuta è bella, o giusta. Se lo fai sei già “tappato”. Ora non è possibile, i social ti massacrerebbero. E purtroppo ci devi rinunciare.»
Vi siete mai scontrati coi pregiudizi?
«S: Relativamente con quello della volgarità. Dopo che abbiamo smesso siamo stati forse sdoganati, ma c’era davvero gente che andava a comprare i nostri DVD di nascosto, si vergognava. Non ho mai capito chi ci diceva “fate ridere ma anche pensare”. Il nostro target era popolare, di base ci muovevamo in quel contesto lì. E poi il nostro vissuto era quello, siamo sempre stati molto coerenti con la realtà, poco teatrali. E forse il problema non ce lo siamo neanche mai posto.»
L’aneddoto più memorabile?
«A: Il più bello per me è stato a Mezzavia, c’era una mamma che raccontava le scene al figlio non vedente, nel minimo dettaglio, e lui ascoltava le battute. Come un audiolibro. Da brividi.
S: Un’altra volta, una ragazza malata terminale chiese di venire a vedere lo spettacolo a Villa Severi, e riuscì ad avere il permesso.
F: Io mi ricordo la figura di merda che facemmo a Lerici. 1998 – Concorso Nazionale per Emergenti, con ospite Gene Gnocchi. Fummo chiamati da quest’attrice, Pia Engleberth, che era vestita da pinguino. Portammo una cosa breve, dove io facevo un’introduzione, Santino il Motociclista e poi c’era Alessandro. Piacque abbastanza, ma tutti ridevano come si ride a un concorso, in maniera sommessa. Alessandro lì mandò affanculo, spiazzandoli, la gente non sapeva se stesse scherzando o fosse serio. L’attrice si incazzò tantissimo, ci inseguì goffamente col costume da pinguino. Scendemmo nei camerini, loro dimenticarono di staccare il microfono ad Alessandro, che iniziò a smadonnare. La gente stesa in terra del ridere, pensava che facesse parte della gag. Arrivammo “esimi”.
A: Una volta giravamo a Nettuno. Arrivammo in hotel la sera, stanchi morti, e non riuscimmo a dormire perché nella stanza accanto stavano girando un film hard. Andammo nella hall di questo albergo squallidissimo, ”Lo Scacciapensieri”, dove c’era questa statua gigantesca di Santa Maria Goretti. Alle mie lamentele, il receptionist mi rispose “ma lei non è un attore? Si faccia scritturare”.
S: Un’altra volta giravamo la scena di tre naufraghi a Torre Astura, tra Anzio, Nettuno e Sabaudia. Era zona militare, e prima di entrare a girare dovevamo aspettare che finissero le esercitazioni “di sparo”. Ci fu un cambio d’orario dell’addestramento all’ultimo, e all’improvviso iniziammo a sentire un casino incredibile, con tutti che ci dicevano di scappare. E Alessandro che rimaneva lì, affascinato dai tonfi (ridono – NdA), non c’era verso di portarlo via.»
Il personaggio preferito?
«A: Il mio è il Motociclista, era il mì babbo, anche i costumi erano i suoi. Lui faceva a gara col treno: partiva in moto da Indicatore, e a Ponticino, prima che si chiudessero le sbarre, passava di sotto. Trattava sempre male la gente, era “cattivo” nel fare i suoi scherzi. “Faccio da me, andate tutti affanculo, la gente mi fa schifo” invece è la battuta di un personaggio ispirato a un suo amico, Cafiero, che stava in un condominio e una volta cadde dalle scale. “Cafiero che avete fatto?”, gli chiesero. “‘NA SEGA!”, rispose lui.
S: Potrei citarne tanti, non li distinguo, quando entro nel personaggio poi mi affeziono. Ad esempio il Randellini, che inizialmente non era l’Orafo, ma venne fuori dopo. All’inizio imitavo un operaio mio collega di lavoro, che chiamava la sù moglie “la mamma del mì figliolo”; aveva un atteggiamento estremamente maschilista, freddo. Ispirò il personaggio poco prima che iniziassimo la trasmissione a Teletruria. Anche il monologo del personaggio ispirato alla mia mamma ne “I Sogni nel Cassonetto” era potente. Mi vestivo coi suoi vestiti, mia mamma era molto claudicante quando si muoveva. Poi ho fatto il Portiere, il Bussino, tutte cose diverse. E il Ciclista, con battute esilaranti in “Elettroencefalogramma Concavo”. Anche i due depressi cronici fatti in coppia con Alessandro, che dicevano “te stai male, io sto benissimo”, erano forti.
F: Il mio personaggio preferito sono io, Francesco Maria Rossi.»
Sogni, progetti, utopie: prevedete di tornare?
«S: Gli Avanzi come prima no, ma in una serata più ampia, con anche altre situazioni, magari sì. Ci stiamo pensando.
F: Io sto cercando di prenotare una stanza alla Casa Pia.
A: Io so uno da esplosivi.»
di GEMMA BUI
Video AdB
YT “L’Ortica”: https://www.youtube.com/channel/UC-KWs_hSBTug-H0M9ikdVOw
Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.