Come saprete, se siete affezionati lettori e lettrici, il nostro è un lifestyle magazine, una rivista che vuole farvi distrarre, divertire, perdere (nel senso più ampio del termine) tra i locali, i negozi, i personaggi
e la vie del centro di Arezzo… Ma da un po’ di tempo a questa parte in redazione abbiamo avvertito la necessità di approfondire temi “più impegnati” (come si dice in gergo), per mostrarvi anche un lato diverso della nostra città e farvela conoscere fin nelle sue viscere, in ogni sua faccia e dinamica. Da qui l’idea, o meglio, come detto, la necessità, di varcare le porte della Casa circondariale di Arezzo. Ad aspettarci, al di là di porte blindate e controlli, il Direttore Giuseppe Renna, che, oltre a quella della nostra città, gestisce anche la Casa di reclusione Ranza di San Gimignano.
Origini salentine, nel corso dei suoi 25 anni all’interno dell’amministrazione penitenziaria ha lavorato nella nativa Puglia per poi scegliere la Toscana, dove, ci spiega, aveva studiato. “Nella nostra professione Nella nostra professione dopo un certo numero di anni dobbiamo obbligatoriamente cambiare sede, e a me piace la Toscana. Ho scelto Arezzo perché ho visto una città attiva, che ha voglia di impegnarsi nel sociale. Io guardo a quello che c’è fuori dal carcere: pochi ci pensano ma influenza molto ciò che c’è dentro. Se questi due mondi non comunicano, c’è qualche problema: allora il carcere diventa un lager, invece deve essere una cosa trasparente, aperta a tutti. Permeabile.”
Direttore che tipo di carcere è quello di Arezzo?
«È un carcere circondariale, cioè dove vengono portate le persone quando vengono arrestate e non rimangono molto tempo, un anno e mezzo, due; qualche volta arriva una persona, sta una settimana, poi va in camera di consiglio e viene scarcerata. Se la detenzione diviene definitiva, si spostano in altri istituti. È inoltre un carcere storico, perché al suo interno è stato compiuto l’eccidio di tre partigiani. E poi è costruito bene: la cosa più importante in un carcere, secondo me, non è la sicurezza, ma la pulizia. Perché si vive in spazi ristretti, come si è visto in occasione del Covid. Anche per questo stiamo portando avanti da vari anni una ristrutturazione che doterà tutte le celle di una doccia, rendendole adeguate ai nuovi parametri di legge. I limiti sono di tipo strutturale: essendo dei primi del ‘900, non ci sono molti spazi per le attività trattamentali, a cui noi diamo molto importanza.»
Quali sono queste attività?
«Abbiamo corsi di teatro e scrittura creativa; una scuola dove si studia inglese, informatica; vorremmo creare un orto. Qualche settimana fa una scolaresca ha incontrato i nostri detenuti studenti, c’è stato un bello scambio. Un carcere funziona se ci sono le associazioni di volontariato che entrano, e di questo ad Arezzo non c’è penuria. “Oltre il Muro ODV” è un’associazione importante che contribuisce molto ad alleggerire il clima, così come l’associazione di mediazione culturale “ACB Social Inclusion aps” che ci aiuta a coinvolgere i detenuti stranieri. Tutto questo per un detenuto è fondamentale: la vera ventata di aria fresca arriva nel momento in cui una persona libera decide di dedicare parte del suo tempo, senza alcun compenso.»
Che detenuti ospitate attualmente qui ad Arezzo?
«Qui abbiamo circa 40 detenuti, su una capienza totale di 110. Sono tutti uomini e detenuti comuni, né minori né AS (Alta Sicurezza: i condannati per reati di tipo associativo), come sono viceversa quelli di San Gimignano. Quello è stato il primo istituto in cui è stato riconosciuto il reato di tortura in Italia, e c’è stata una sentenza abbastanza pesante. Una volta il regime custodiale era celle chiuse in tutti gli istituti, com’è tuttora nelle carceri di alta sicurezza. Finalmente, grazie anche a una condanna del Consiglio d’Europa le abbiamo potute aprire e per me è stato davvero un fatto positivo. Paradossalmente io respiro una maggiore sicurezza in un carcere aperto, in cui posso affrontare in un corridoio un detenuto anche pericoloso, piuttosto che incontrarlo oltre delle sbarre.»
Che processo auspicate che compia un detenuto?
«In un carcere opera l’équipe trattamentale composta da varie figure: il direttore che coordina, il comandante che si occupa della sicurezza, l’educatore delle attività trattamentali, lo psicologo che fornisce un quadro psicologico. Chiamiamo anche insegnanti, psichiatri, volontari quando ci possono fornire ulteriori elementi. E facciamo una revisione critica: partendo dal reato si cerca di capire con il detenuto perché l’ha commesso, perché si è trovato in certe situazioni, e si cerca un ravvedimento. Questa è una sorta di diagnosi. Quindi si offrono le attività trattamentali e il lavoro dello psicologo per intervenire. Se la “prognosi” è negativa si continua con il trattamento intramurario. Se è positiva proponiamo gradualmente delle misure alternative (permesso premio, semilibertà). A San Gimignano abbiamo aperto il primo campus universitario con l’università di Siena. Stiamo parlando di mafiosi, che magari arrivano all’istituto con la terza media. Nel momento in cui uno frequenta un CPIA (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti), poi un liceo e l’università, cambia: è un uomo completamente diverso. Molti detenuti che fanno questo percorso poi nonostante abbiano pene di 20/30 anni lavorano dal carcere ed escono all’esterno. Non funziona sempre, ma il lavoro e l’istruzione sono gli elementi fondamentali attraverso cui un detenuto può cambiare. Quello che voglio dire è che le opportunità trattamentali funzionano; la cultura funziona.»
Qual è davvero l’importanza della cultura, della situazione familiare ed economica, nei casi che si trova ad affrontare ogni giorno?
«La Costituzione dice che le pene devono tendere alla rieducazione, non alla punizione, perciò questo è il nostro mandato. Cosa emerge quando andiamo a fare la nostra revisione? Che nel 95% o più dei casi c’è una situazione familiare disastrosa: parenti assenti, che hanno già problemi con la giustizia, o di dipendenze. La cosa grave è che questi sono dati di fatto, oggettivi. Ci sono le eccezioni, ma la regola è questa. Tante volte mi domando: se mi fossi trovato in questo contesto, nel momento in cui non c’è un genitore, non ci sono i soldi, io cosa avrei fatto? Io la mano sul fuoco che avrei agito diversamente non la metterei. Magari avrei seguito un modello sbagliato, il gruppo amicale. Se tu hai come punto di riferimento la famiglia criminale, allora sì che, come dice Saviano, bisogna pensare ad altre forme di aggregazione. Ma quella è una modalità patogena. Nella maggior parte dei casi, dei genitori presenti fanno un’enorme differenza, in base a quello che io ho visto nella mia carriera.»
C’è qualcosa che andrebbe rivisto nella gestione delle carceri?
«Il problema fondamentale è che il carcere è stato abbandonato. Io sono uno tra i direttori più giovani d’Italia; l’ultimo concorso risale a 25 anni fa. Perciò io questa riforma “rivoluzionaria” ce l’avrei: banalmente, che in ogni carcere ci sia un direttore e un comandante. Perché per esempio a San Gimignano, un carcere di alta sicurezza dove ci sono detenuti per fatti gravissimi, io sono un direttore in missione, ci vado 5 giorni su 7 e lo stesso vale per il comandante che va 3 o 4 volte a settimana. Come si può pensare di gestire un carcere con le sue complessità in questo modo? E la Toscana non è tra le regioni messe peggio. Grossi problemi in tante carceri italiane si sono verificati per questo.»
La serie “Mare Fuori” adesso è super di moda tra giovani e giovanissimi: la percezione che ne abbiamo del carcere è sbagliata, o troppo romanticizzata?
«Anche i miei figli me ne parlano spesso… Già mi stressavano con Prison Break! Questa non l’ho vista, anche se mi dicono che è una bella serie. Per quello che so sembra realistico, anche se non sono un esperto di carcere minorile; a parte il fatto che uomini e donne stiano insieme. Questo no: uomini e donne sono rigidamente separati, sono mondi a parte. Che poi quello minorile sia un carcere strutturato esclusivamente sul trattamento, sul recupero, è sicuro.»
La cosa che più ci ha colpito della bella chiacchierata con il Direttore Renna è che “la cultura funziona”, le opportunità date ai detenuti in termini di riscatto sociale, lavoro, contatto con i volontari o le famiglie, funzionano. Ed è bello anche sapere che in questo senso Arezzo è attiva e fervente, pronta ad entrare, ad andare oltre le mura, sia fisicamente, ma soprattutto con un approccio mentale che vede prima gli uomini e poi i detenuti.
di VIVIANA RIZZETTO e MELISSA FRULLONI
Vegetariana militante. Animalista convinta.
Femminista in prova. Cresciuta con il poster di Jim Morrison appeso alla parete.
Romanticamente (troppo) sensibile e amante della musica vintage.
Una laurea in giornalismo, un cane, mille idee e (a giorni alterni) la sensazione di poter fare qualsiasi cosa…