La lunga chiacchierata, sorseggiando una birra, con Giacomo Papini, ha dato vita ad un interessante flusso di coscienza che mi ha portato a conoscere meglio questo batterista aretino, classe 1995, che ha alle spalle un’esperienza musicale notevole.
“Non ho ricordo del momento preciso in cui ho iniziato ad avvicinarmi alla musica, ma invece ricordo bene il tempo passato in macchina con la mia famiglia; mio padre metteva sempre musica differente e io rimanevo affascinato dalle sue spiegazioni: sì, il mio primo approccio musicale è stato sicuramente merito suo! Poi intorno ai 14 anni ho iniziato ad avere contatti con amici musicisti; nel mio gruppo di conoscenze suonavano tutti e quindi fu abbastanza ovvio che anche io mi avvicinassi ad uno strumento: mi piaceva il ritmo, il tempo e così pensai alla batteria. Mi sono arrangiato da solo imparando da autodidatta, facendo tanto esercizio e passando ore ed ore sulla batteria. Poi è stato naturale iniziare a suonare con alcuni gruppi. Il primo con cui ho suonato e con cui continuo a fare musica sono gli “Ethel floon”, una band rock della nostra città.
Negli ultimi anni ho avuto modo di affiancarmi a vari gruppi che mi hanno portato in più parti del mondo: suono con i “Plastic man” una band di Firenze che fa rock and roll, con Scott Yoder (USA) un cantautore di Seattle con cui faccio glam rock, e poi ancora Fiona Moonchild (USA), “Slick nova family”, “Elius inferno and the Magic Octagram” di Taranto, con note più rilassate e con tempi più dilatati. Passo da ritmi e velocità diverse e questo eclettismo mi piace molto e mi mette costantemente alla prova, dovendo entrare ogni volta in un mood differente a seconda della band che mi ingaggia.”
Il concerto del cuore?
«È sempre difficile scegliere, ogni concerto a suo modo è speciale: uno magari mi è piaciuto molto per il pubblico ed il suo calore, un altro per le sonorità e la coesione dei musicisti sul palco, altri per la paga! Ma forse direi al Binic Folk Blues Festival, con i “Plastic Man”, nella Francia del nord, quando abbiamo suonato di fronte a 12.000 persone, dove le prime file sapevano i pezzi a memoria, ballavano e cantavano… Forse quello mi è rimasto più impresso di altri.
Poi in linea di massima le metropoli mi hanno sempre regalato soddisfazioni maggiori; Londra, New York, Lisbona, Parigi, Los Angeles o San Francisco… In queste città ho suonato più volte negli anni e non ricordo un concerto andato male. Poi ci sono anche i colpi di scena delle città piccole o dei concerti infrasettimanali, ma non ne ricordo uno in particolare; 9 anni di attività sono tanti!»
Hai suonato in Italia, Europa e America, che differenze hai riscontrato?
«Sicuramente il trattamento che ti riservano è diverso: negli Stati Uniti non hai la stessa accoglienza che hai in Europa; chi ti fissa le serate si occupa solo della serata e del pagamento, niente di più. In Europa sei più coccolato. E cambia anche molto l’approccio verso i musicisti: c’è un interesse maggiore rispetto all’Italia, ma non fraintendermi, a noi italiani ci piace la musica e ci interessiamo alla musica, ma quando c’è una band underground in tour non tutti sono propensi all’ascolto. E questo si rispecchia anche nella visione della figura del musicista: all’estero è normale mantenersi suonando e anche quando hai una conversazione e rispondi che suonare è il tuo lavoro nessuno ti guarda interdetto, mentre in Italia è impensabile per molti vivere di questo.»
Cosa consiglieresti a chi vuole fare della musica il proprio mestiere?
«Consiglierei semplicemente di lavorare senza sosta, non accontentandosi mai del risultato ottenuto e continuando a studiare. Purtroppo al giorno d’oggi non ci sono più regole fisse o incredibili strategie di successo, ne ho viste di ogni in questi anni… Band in tour senza un disco, o con un singolo su internet e basta che riempivano comunque locali, o, al contrario, band con carriera decennale che ancora cercano di uscire o farsi conoscere. Quindi nulla, lavorare fino allo sfinimento e appena siete sfiniti, continuare!»
Futuri programmi post-Covid?
«Al momento sto lavorando col mio amico e collega Geremia ad un Hip-Hop ensemble, la “Slick Nova Family”, progetto iniziato per gioco, ma che ci ha portati a considerare di renderlo reale dopo il riscontro avuto in seguito ad un concerto fatto la scorsa estate. Scriviamo musica e testi e poi raduniamo la Family appunto, la cui formazione è fluida e può costantemente variare, per arricchire i brani a seconda delle esigenze artistiche da noi riscontrate. Questo è il mio progetto più recente.
Per le possibilità ‘’post covid’’, se si guarda alle band affermate e progetti grandissimi, quelli ripartiranno senz’altro, tutto il resto, l’underground o simili, invece non saprei che fine può fare, non ne ho sinceramente idea. Non c’è aiuto, non c’è tutela o un concreto interesse. Forse in parte sta anche al pubblico virare verso gruppi e progetti alternativi, che non siano quelli che riempiono i palazzetti da fine anni ’90… A volte, lasciandomi andare a pensieri utopici, mi piace immaginare una settimana in cui al genere umano non sia concessa nessuna forma musicale, dal fischiettare sotto la doccia, alla radio in macchina o semplici rumori bianchi di sottofondo, nulla di armonicamente concepibile. Forse solo in quel caso magari ci si renderebbe conto di quanto, in realtà, la musica, il suono, l’armonia siano la cosa più importante… Sì, in assoluto!»
di GIULIA MIGLIORI
IG: @tofu_vegas