Dopo aver dato uno sguardo alla vita di un ballerino (WEARE#9), stavolta ho deciso di rivolgermi al mondo della musica, scegliendo di intervistare Andrea Marmorini, musicista cresciuto nella scena underground italiana, presidente dell’associazione culturale Karemaski ed infine padre della nota etichetta discografica locale, Woodworm. Dopo diversi anni dal nostro ultimo incontro, ci siamo ritrovati presso la panchina di un parco cittadino, graziati da un improbabile sole autunnale di una mattina terribilmente umida, raccontandoci storie, ricordando il passato e lasciandoci trascinare da riflessioni personali.
Come è iniziato il tuo percorso nella musica?
«Ho cominciato a suonare il flauto traverso a cinque anni e a quell’età ascolti i dischi che trovi in casa; i miei genitori non erano grandi appassionati di musica, ma ricordo bene che dal loro giradischi ascoltavo Bennato. Nell’istruzione scolastica, in generale non soltanto sul tema musica, vieni indirizzato ad avere un certo tipo di gusto. Dalle scuole superiori in poi scopri un universo totalmente nuovo che ti porta ad avere un confronto con realtà terze alla famiglia e alla scuola. É in quel momento che sono venuto a contatto con diversi generi musicali tra cui il punk, di cui mi innamorai, sia per la musica, ma soprattutto per alcuni concetti e tematiche che lo caratterizzano. Iniziai a suonare all’occorrenza qualsiasi strumento necessario per poter mettere su una band con persone che condividessero lo stesso spirito e quando possibile, andare in tour in Italia e all’estero.»
Come si è evoluta questa passione?
«Nel periodo universitario, un po’ per mettersi alla prova, ma soprattutto per noia, ci concentrammo (con Iacopo Gradassi) su di un nuovo progetto che prevedeva la valorizzazione di altri musicisti, invece di noi stessi. Nacque così SonsOfVesta (SOV), etichetta punk DIY (Do It Yourself). Da principio, fu una compilation prodotta per autofinanziarsi. Successivamente una band ti portava la sua registrazione, tu collaboravi alla creatività per gli artwork, al packaging ed infine stampavi il disco. La distribuzione avveniva come una sorta di “porta a porta” mondiale. Ovunque nel mondo c’erano realtà affini alla nostra sia per lo spirito che per natura. Ogni uscita discografica veniva barattata con quelle delle altre etichette cosi che ognuna di queste realtà poteva essere distributore del proprio ed altrui materiale. É così che al tempo conobbi Steve Aoki e la sua Dim Mak Records. I dischi venivano poi venduti ai concerti per rifinanziarsi e dedicarsi ad altri progetti. L’esperienza SOV è durata per dieci anni con quarantacinque uscite e tante nostre band, italiane e non, in tour per tutta Europa.»
In quegli anni hai continuato ad essere anche musicista?
«Suonavo in molte band. Quella più longeva è stata “La Quiete”, con cui abbiamo suonato in posti che mai avrei creduto di poter visitare come Stati Uniti, l’intera Europa, Giappone, Malesia, Singapore ed Australia. L’incontro con realtà e individui che condividessero la mia stessa passione, ma cresciute in contesti culturali così disparati e talvolta differenti, è sicuramente l’esperienza più cara che mi porto dietro da tutto questo. È curioso e bizzarro come il punk avesse attecchito in un paese musulmano come la Malesia: non dimenticherò mai gli occhi dietro ai burqa durante i nostri concerti; suonavamo nudi per via del caldo e urlavamo come degli ossessi… Dietro il velo, ricordo quello sguardo di chi sembrava aver visto il diavolo e ne era rimasto affascinato, cercava di capirlo e non aveva paura di chiedere dopo la fine del concerto. Quell’esperienza mette in evidenza quanta distanza a volte possa esserci tra due mondi così diversi e quanto semplice possa essere lo stabilire un contatto solamente attraverso la musica…»
Arrivati a questo punto dell’intervista, ho dovuto prendere una decisone perché il materiale raccolto era davvero imponente. Ho deciso di suddividere in due parti questa lunghissima conversazione, che personalmente ho reputato meritevole di approfondimento. Questa prima metà, vuole raccontare un’esperienza personale, ma anche lo spaccato di una realtà, sconosciuta a molti, che per anni ha vissuto nel nostro tessuto sociale e a cui sono molto grato ed affezionato. Vi invito a seguirci in attesa della seconda parte di quest’intervista, dove andremo ad affrontare temi più attuali, nello specifico l’associazione culturale Karemaski e l’etichetta discografica Woodworm.
di LORENZO STIATTI