Ettore Mengozzi, classe 1989, parla con noi in termini molto schietti: fare il regista è un mestiere come tutti gli altri, un mestiere che si impara e si fa. Fare il regista non è un sogno, non è una chimera per poche anime elette. È con questa legge morale che l’artista, aretino trapiantato a Bologna, partorisce tutti i giorni le sue idee e ha prodotto anche il suo primo film, Sindrome Italia.
Quest’anno è uscito il tuo primo lungometraggio, Sindrome Italia, ce ne parli?
«Devi sapere che nel 2005 due psichiatri ucraini iniziarono a notare dei disturbi mentali simili, come ansia, insonnia, depressione o attacchi di panico, in una serie di donne che avevano tutte in comune l’aver lavorato come badanti in casa di anziani in Italia, si dette allora a questa malattia il nome di “Sindrome Italia”. Il film segue la storia di due donne romene, di cui una ha lavorato quindici anni da noi come badante e poi è tornata nel suo paese, in una cittadina di nome Iași, dove si trova appunto un ospedale con un reparto specializzato in questo tipo di sindrome. L’altra protagonista è una donna che faceva effettivamente la badante da tre o quattro anni e aveva i figli minorenni a casa. Il film segue le storie parallele, diverse ma simili, di queste due donne, del modo in cui cercano di cambiare le loro sorti e di riprendere in mano le loro vite soprattutto nel rapporto con i figli, tema centrale di queste storie. È un documentario d’osservazione, non ci sono interviste, non ci sono voci narranti; un documentario creativo moderno in questo senso.»
Che lavoro c’è dietro un progetto del genere?
«Nel 2019 lessi un articolo che parlava di questa sindrome. Con Giacomo Betti, direttore della fotografia, abbiamo cominciato a scrivere il progetto e l’abbiamo proposto ad una casa di produzione di Milano. Poi ci siamo messi alla ricerca delle protagoniste, la parte più faticosa e più divertente. Siamo andati in Romania, abbiamo incontrato varie donne ma molte non volevano apparire. Parallelamente in Italia non è facile trovare delle badanti e instaurarci un rapporto di fiducia. Mi sono buttato sulle chiese ortodosse tra Arezzo e Bologna e sui gruppi Facebook.
Una volta trovate le protagoniste abbiamo iniziato a fare le prime riprese e a cercare i fondi, che abbiamo avuto grazie ad un bando ministeriale e alla Film Commission in Emilia Romagna. Abbiamo vinto due premi al Biografilm, ora stiamo pensando alla distribuzione e abbiamo vari appuntamenti in un tour promozionale. L’anteprima internazionale probabilmente sarà a Sofia e poi vedremo di coinvolgere vari centri di cultura italiani in Europa, tra cui sicuramente Bucarest che ci ha dato una mano.»
Qual è la storia che ti ha portato a fare questo mestiere?
«Che io ricordi, è una passione che ho da tutta la vita. Per la nostra generazione la formazione era tendenzialmente quella del cinefilo, sono nato come un appassionato di film. Già dalle scuole medie dicevo “voglio fare film” e prima dei diciotto anni, avevo già visto i film che mi hanno segnato. Scongiurare la perdita, cristallizzare la memoria, è la cosa che mi ha sempre attirato del cinema. Da cinefilo però non sapevo niente di tecnica, si parla ancora di un periodo predigitale. Dopo la triennale in psicologia e un anno sabbatico a Londra mi sono detto “se non ci provo neanche non ha senso” e sono entrato alla Civica Luchino Visconti di Milano, dove anzitutto ho imparato a capire le basi di ripresa, montaggio, della sceneggiatura. Finita la scuola ti ritrovi a “voler fare il regista” ma vuol dire tutto e vuol dire niente. Inizialmente ho fatto l’assistente alla regia di molte produzioni pubblicitarie e videoclip con Giacomo. Partecipai anche ad un concorso indetto dalla scuola e dalla Campari per fare un cortometraggio e vinsi il primo premio alla mostra del cinema di Venezia.
Con i soldi di quel premio ho fatto un altro corto e così via, uno step dopo l’altro. Nel 2021 ho iniziato anche la scrittura di podcast, in particolare abbiamo iniziato a farne alcuni con Marco Maisano come The italian job e Fantasma – il caso Unabomber, poi One Podcast mi ha proposto di lavorare con Elisa True Crime in questo nuovo progetto che si chiama Delitti Invisibili.»
Che consiglio daresti ad un giovane aretino che vuole intraprendere questo mestiere?
«Trovate qualcosa che vi piace, la vostra ossessione, senza quella non si può fare. Andate in giro, finito il liceo andate ovunque. Fare qualunque esperienza, università o altro, ti cambia la prospettiva. Poi cercate di avere un equilibrio psicologico per fare in modo che le frustrazioni non vi mangino, rischio oggi ancora più grande nel mondo dei social. Guardate solo al vostro percorso senza farvi influenzare dal successo degli altri. Questo può essere un lavoro frustrante, si riparte sempre da zero a ogni step; i risultati che raggiungi li devi prendere per buoni, se non accetti le delusioni è la tua rovina, di film belli ce ne sono tanti, di registi bravi ce ne sono tanti.»
di GABRIELE MARCO LIBERATORI
IG: @ sindrome_italia_documentario | @ettore_mengozzi
Laureando in lettere antiche, chitarrista dall’animo rétro, cultore di teatro e storia dell’arte. Ritengo che la conoscenza dell’espressione e del pensiero umani da Omero fino ai giorni nostri sia l’unica chiave per elevare il nostro spirito al di sopra di un vacuo imperante materialismo. Il mio motto è “E l’omo vive”, perché non c’è buona speculazione intellettuale senza un calice di rosso e un piatto di leccornie regionali.