C’è chi scende e chi sale, da nord a sud e da est a ovest, ma “con un deca non si può andar via”. Citazioni a parte, prima o poi ad ogni aretino viene la voglia matta di fuggire da occhi indiscreti e vicini impiccioni, tagliare i ponti con il caos di una città troppo piccola per essere città e cercare un senso di indipendenza dalla vita da “provincialotto”. Seduta ad uno dei miei caffè preferiti della città, mi guardo intorno cercando di capire cosa dei tempi in cui l’illustre Carducci scriveva: “Basterebbe Arezzo alla gloria d’Italia”. Lo faccio spesso, e lo facciamo spesso; per pochi istanti diventiamo anziani osservatori di cantieri: la inevitabile psicoanalisi del personaggio atipico, chi è, cosa farà e dove andrà. E allora cominciamo il nostro viaggio generazionale in questo gioco di sguardi.
Ebbene sì, anch’io sono una di quelle che prima a Firenze e poi a Londra, ha avuto la sua fuga di cervello. Occhiali fashion con lente nera alla mano lasciamo la nostra amata e bistrattata cittadina per trasferirci in una enorme città, in gergo comune detta metropoli.
“Arezzo Dream”, illusioni e disillusioni, folle impazzite delle metropoli, piene di luci, persone, ristoranti e divertimenti. Passaporto, pronti per una serie di nuove situazioni, diventiamo eroi 2.0 che incarnano tutte le caratteristiche e le contraddizioni della nostra generazione in continuo movimento, cercando di stare al passo con i trend in una società sospesa tra lusinghe intellettuali e piena di artisti per essere una città d’arte.
Se fino a quel momento Arezzo sembrava il centro del mondo, nella nuova metropoli può capitare spesso che nessuno la conosca né sappia dove si trovi. Siamo quelli smarriti in metropolitana, che cercano la giusta direzione con in mano un trolley pieno di speranze. Assolutamente non pronti a tornare indietro al “paesello” che ci siamo lasciati alle spalle. Ritrovarsi a dover fare i conti con i ritmi frenetici e le regole non scritte della vita urbana, un quotidiano susseguirsi di esperienze attraverso lo sguardo di chi viene dal paese, prima ingenuo e poi consapevole e partecipe. Sogniamo la svolta professionale, pronti a tutto pur di riuscire a imitare i nostri miti, ed accaparrarci un lavoro che sia più o meno creativo – ovviamente in stage – e a scovare il locale notturno più instagrammabile.
Non sempre però queste fughe di cervelli danno gli esiti sperati. Siamo la generazione che tenta in ogni modo di trovare il proprio posto e la propria identità in una società fatta di immagini e apparenze, e non capiamo che a volte tornare al proprio nido, alle nostro origini, non è affatto male. Passano i giorni, i mesi, e gli anni e ci rendiamo conto che “siamo troppo di città per essere di paese e troppo di paese per essere di città”. (cit. Soy de Pueblo)
Del resto si sa, ci sarà sempre una città, un gruppo o una moda che saprà farti sentire provinciale. Fondamentalmente ci sono due modi di reagire ad un luogo forse un po’ troppo stretto: o integrarsi, o rifiutare tutto e tutti. Non so se dipenda dal fatto dell’opportunità avuta nel lasciarci alle spalle Arezzo, ma per certi versi adesso noi “figliol prodighi” nutriamo un rispetto per alcuni aspetti del vivere in una piccola città che un tempo ci sembravano limitanti o stupidi.
Quando siamo ad Arezzo vorremmo scappare, e quando non ci siamo vorremmo tornare.
I giorni si susseguono al ritmo delle stagioni e la fame che l’aretino ha insita nel suo DNA di voler fare pettegolezzo si sazia in quel luogo mistico chiamato Bar. Magari sono passati anni, ma qui dove non sei un “numero”, ma una “persona” che tu ci voglia vivere o meno, i tuoi compatrioti si chiederanno sempre cosa tu stia facendo. Quell’autocelebrazione da gruppo Facebook “SEI DI AREZZO SE…” richiama e fa crescere in te la nostalgia di quella dimensione sociale, anche se un po’ te ne vergogni.
Vicini o lontani, giovani o meno giovani è un sentimento di appartenenza ed identità che, prima o poi, viene a “galla”: come seguire via streaming la Giostra del Saracino o esultare a distanza per un goal del cavallino rampante. Così riaffiorano, come in un vecchio album di ricordi, le quotidianità vecchie e nuove.
Scontato, forse no, dirlo, ma rivivere la nostra città con gli occhi di un turista, emozionarti per un pranzo in famiglia o per una piccola meraviglia culinaria in una trattoria delle vie del centro storico, sottintende come ogni particolare, ogni storia che sembra contare poco, costituiscano invece frammenti del nostro essere, ci ridà la carica e ci fa ritrovare quel senso di appartenenza, perché aretini ci si nasce…
E perché Arezzo sarà anche piccola, ma noi abbiamo i nostri metodi
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di VERONICA VALDAMBRINI
Stylist, Graphic Designer e Fashion Writer. Fin da quando ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da situazioni, stili e differenti tipi di bellezza. Continuamente alla ricerca del nuovo ed alla riscoperta del vecchio, si affiancano a musica Jazz, Portrait Fotografici e cultura giapponese, piaceri e fonti di ispirazione per il mio lavoro e stile di vita.